Peppino Prisco

Faroneroazzurro

Vice capitano


MILANO - Non lo ha mai chiamato papà. "Sempre Peppino, come lo conoscevano tutti". Luigi Prisco, 67 anni, è figlio dell'uomo che per una vita è stato l'anima dell'Inter, e che dell'interismo ha incarnato lo spirito verace, politicamente scorretto, irriducibilmente antimilanista. "Il primo avversario per Peppino era il milanista. Un tempo in città gli juventini non esistevano. Ce n'era forse qualcuno nelle periferie più giovani, che ammetto di non aver mai frequentato. Ho sempre vissuto intorno al palazzo di giustizia. Sono avvocato come lo era mio padre, prima di lui mio nonno che nel 1921 si trasferì a Milano per amore, e sù nella discendenza fino al quadrisnonno, che aprì lo studio legale Prisco a Napoli".

Lo scudetto l'Inter lo ha però vinto interrompendo nove anni di dominio della Juve. E lo ha fatto con un ex juventino in panchina.
"Ex, esatto. Chiunque sieda sulla nostra panchina per me è interista. E penso che Conte, a modo suo, lo sia diventato davvero, intimamente. Per l'accoglienza che ha ricevuto. Ma anche per come si è lasciato con la Juve. Dieci anni fa, mai sarebbe venuto all'Inter. Ma la vita cambia gli uomini e il corso delle cose. Mi piacciono anche gli Zhang, amano l'Inter, spero restino a lungo".
Fra i giocatori chi la emoziona di più?
"Impazzisco per Barella, sintesi di Furino e Tardelli. Mi ricorda anche Matthaus. Ne ha la classe e le palle, vale a dire quella somma di grinta, corsa e attaccamento che è difficile sintetizzare altrimenti".
Questo scudetto quali altri le ricorda?
"Quello di Trapattoni, la cui Inter aveva lo spirito a questa di Conte, che però è tatticamente più raffinato. Vedo la stessa voglia di lottare, lo stesso carattere. Tratti comuni anche a Herrera e Mourinho, a cui auguro ogni bene. Tutti accusati di schierare le squadre a catenaccio".
Lei non è d'accordo?
"Non ha senso. Senza difesa non c'è calcio. I teorici del bel gioco li ho sempre derisi, in ogni epoca. Ricordo chi all'inizio dell'avventura interista maltrattava Trapattoni, sostenendo che addormentasse le partite. È stato forse vero per una decina di gare, poi la sua Inter è esplosa. I passaggini sono la ciliegina, la torta è l'organizzazione".
Come nacque la sua passione per l'Inter?
"Mio padre mi nascose l'esistenza delle altre squadre. Erano entità astratte, esistevano solo nella misura in cui dovevano perdere contro l'Inter. C'è solo l'Inter non è solo il titolo dell'inno del club, è la storia della mia vita. Un dogma contro cui non ho mai osato ribellarmi, nemmeno in adolescenza. A quindici anni ho forse messo in discussione i miei genitori, come tutti i quindicenni, mai la fede interista".
Leggenda vuole che lo studio legale Prisco sia sempre stato pieno di milanisti.
"È così. Vale per gli avvocati come per le segretarie. Tutte milaniste fino all'attuale, finalmente interista. Peppino godeva della contrapposizione coi milanisti. Aveva un faldone alto una spanna pieno di lettere d'insulti. Quasi tutte di tifosi rossoneri, qualcuna dei supporter del Borussia Monchengladbach, per la causa vinta sulla questione della famosa lattina nel 1971".
Qual è il primo scudetto che ricorda?
"Quello del 1962/63. Peppino, consigliere dell'Inter dal 1951, mi portava a San Siro da quando avevo quattro anni. Per lui la folgorazione nerazzurra fu più tardiva. Lo colpì quando di anni ne aveva quasi otto. Era il 1929. L'avvocato Pasquale Buffola, amico di famiglia, si presentò all'uscio con un cabaret di pasticcini Alemagna. Mio nonno, digiuno di calcio, domandò cosa ci fosse da festeggiare. Buffola rispose: Abbiamo vinto il derby. Peppino domandò cosa fosse il derby. Gli fu risposto: La partita più importante, quella in cui noi battiamo il Milan".
Allora la squadra si chiamava Ambrosiana, per volere del duce.
"Era Ambrosiana solo sulle pagine della Gazzetta, nei cori allo stadio resisteva il vecchio nome. E così nelle chiacchiere al bar e in caserma. A proposito, la passione profana di Peppino era l'Inter, quella sacra gli Alpini. Anche in questo ho seguito le sue orme. Durante il militare, andavo comunque allo stadio. E da Tolmezzo, provincia di Udine, non era uno scherzo. Il 21 dicembre 1975 scappai con la mia 127. Una corsa a 160 all'ora. Forse in realtà erano 156, i vecchi tachimetri erano bugiardi".
Arrivò in tempo?
"Certo. Entrai a San Siro in divisa e Peppino, reduce di Russia, mi guardò commosso. Non si vedeva quasi nulla per la nebbia. Al gol del 2-1, segnato da Facchetti al 90', mio padre scese in campo e lo abbracciò. Le emozioni che mi ha dato l'Inter le ho poi vissute solo con la musica".
Altra passione tramandata da Peppino?
"Ma va. Io ho tre pianoforti in casa, mio padre sapeva suonare solo il citofono. Stonava anche i canti degli Alpini, avrebbe sfigurato in curva nord. Come tutti, non era infallibile. La sua carriera politica ne è l'esempio. Alle elezioni del '58 si candidò con i Repubblicani e prese due voti: il suo e quello di mia nonna. Mia madre, monarchica, non lo votò".
Da suo padre ha invece ereditato la scaramanzia.
"Ho prove scientifiche che alcune cose portano sfiga. Sul risultato delle partite influisce il modo in cui ripongo i vestiti la sera di vigilia, prima di mettermi in pigiama. E la tazza che scelgo per il caffè la mattina. Dopo ogni sconfitta penso a cosa posso avere sbagliato, e qualcosa c'è sempre. Tutti i superstiziosi commettono errori e li pagano".
Le manca San Siro?
"Vederlo vuoto mi fa uno strano effetto. Da anni molte partite le guardo in tv, ma sono abbonato. Un tempo non perdevo una partita importante, anche in trasferta. Ricordo con affetto la finale di coppa Uefa nel '98, con le tifoserie di Inter e Lazio unite nella festa. E la vittoria nel '65 a Torino con la Juve in campionato. Al ritorno il casellante ci disse che il Milan aveva perso a Roma. Mio padre ripartì per Milano a razzo. Guidava una Flaminia Pininfarina, mia madre era terrorizzata. Avevamo sorpassato il Milan, Peppino festeggiò sorpassando tutti in autostrada".
Il sorpasso di quest'anno come lo ha vissuto?
"Una goduria. Anche perché il Milan non ha mai vinto uno scudetto scavalcando l'Inter. L'ipotesi che Inter e Milan possano un giorno avere uno stadio di proprietà condiviso mi spaventa. Legheremmo le nostre sorti l'una all'altra, ci troveremmo a dover gioire dei risultati positivi del Milan. Peppino, che fra sei mesi avrebbe compiuto cent'anni, sarebbe d'accordo con me. Faccio la mia proposta, che sarebbe anche sua: San Siro resti all'Inter e il Milan si faccia lo stadio a Saronno. Con tutto il rispetto per Saronno".
 
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