Seduto, in piedi, seduto, in piedi, il tuo culo una catena elastica a raddrizzare le percezioni sbagliate di chi ti ha costruito bagagli momentanei dove selezionare la resistenza dei tuoi anni accuditi in scheletro e carne, ti presenteranno solitudini in formato angelico di massa, di gente a complimentarsi per la tua impresa storica della venuta al mondo, saranno piegati di seni e labbra sul tuo inconscio scartavetrato a comprometterti istruzioni scardinandoti dal tuo passato anestetico, intorno un bianco movente ad acquisire forme di volti e scoppi di risa, pareti pettinate e letti colorati da bambini a sedici braccia allungati nell’euforia dell’evento fino a raggiungere un vertice atemporale, metteranno tamburi squamosi a pochi centimetri dalla tua messa in onda nel pandemonio e vedrai fiori piccoli, fiori esposti e silenziosi, incravattati ai balconi, pronti a lamentarsi senza presunzione di ascesi, quei fiori l’incontro estremo, li sentirai pulsare sotto il vento, li scruterai indemoniati nella discussione del petalo stuprato, cresceranno oltre tetti di macchine, oltre davanzali, oltre palazzi e tribunali fino ad immedesimarsi in un unico tono nella sfumatura insormontabile del cielo, quel cielo dove raccoglierai colori ad olio spalmandoli uno dopo l’altro facendone pavone artistico sul tuo corpo senza curve planando nell’ottobre tiepido fino alla radura scempiata accarezzata da finestre di manicomio spalancate su quel verde sfuso.
Furia e ragnatele strappate a soffitti con la violenza di mani disperate all’unico obiettivo, furia, capelli inzuppati nella velocità di corse notturne tra automobili di ritorno dagli alberghi, saltando da uno strato di metallo all’altro, catapultandoti, assaporando il sangue di un pezzo di carne separato in due nella perfezione del taglio ferreo dello sportello aperto, finestrini rotti a calci, furia e scivolate su olio imperfetto, furia sui dischi in vinile in mille pezzi collezionati fino a quel momento da magazzinieri delle strade tradizionali, furia e ancora grida dietro le tue spalle coperte da macchie di vita affrontata, sputi dall’alto, un dio qualunque imbiancato di capelli per la tua corsa da figlio ingrato a rovinare la bellezza metrica di poemi lucidati per le occasioni, furia ad accelerare sui ripostigli occasionali immortalati lungo i perimetri delle città come cabine telefoniche per gli sfoghi di amanti interrotti nel loro utopizzare, furia e capelli, sudore e sperma involontario a profanare l’educazione dei pantaloni, sotto le caviglie mondi sommersi da velocità di piedi e gambe, rumori di frastuono insopportabile a devastare catene di pace frizzanti, liquido di bottiglia catapultato da scale, furia nel grido opaco dell’alba che conta cadaveri dietro il tuo fiato smorzato.
Ascolta il blues soporifero delle metropolitane intasate di orologi dalle lancette ticchettanti secondi argentati, percepisci il focolare obliquo che sorregge marionette di benzina luccicante tra le piastrelle fumose e maleodoranti di quel pizzicare all’interno dell’olfatto, una condanna sensoriale, assapora il profumo riccioluto fattosi materia nel parallelo calcolato erroneamente dalle tue labbra al corpo, avvicina la lingua in corde di chitarra lungo gli argini cutanei, tu sei quel blues, ora nevrotico, che perseguita coscienze inchiodate a smog innocui, tu, il braccio destro dell’icona anticristiana che accende spazi con movimento rotatorio delle dita, veloce, velocissimo, irrazionale e tronfio, pennello spezzato che prosegue la sua angoscia illegale tumulando e riesumando senza sosta il battito cardiaco di biciclette senza ruote posate su cemento silenzioso lievemente assolato.
Ragazzo, abbraccia in sarcofagia le distanze ridotte tra oblio ed esplosioni lisergiche, spazza con denti rabbiosi l’uniformità di gengive, riconduci a misure inesistenti il ruggito instabile dei terreni insoddisfatti di pioggia. Ora sei frammenti di vetro conficcati in microcosmi legnosi che gocciolano artrosi, ora, diseredato dalla possibilità di un sorriso, puoi tuonare labbra in direzione di alfabeti zoologici e letterature di paglia, il tuo diluvio di suoni violacei scaraventa fonetiche e allitterazioni lasciandole ondeggiare, meretrici di oppio salato, in prossimità di papaveri apparecchiati dal vento.
Hai interrotto il viaggio tiepido di tartarughe leopardate, ne hai annullata la comparazione stilistica sollevandoti piedi sopra le loro teste, sei precipitato su bagliori ingabbiati esasperando le proprietà dell’aria, hai scardinato paraventi annaspando confuso, insetto moribondo, ali tritate, sei volato nudo sulla sinfonia elastica interpretando il rimbombo di controtempi alieni, assumendo posizioni incomprensibili, snodate, fili fragili, polverizzati, confusi, svergognati in un raggio nero.
La prosa smidollata dei vasi bagnati sotto i portici resiste all’inquinamento di fogliame burocratico, aspetta un altro mezzo sorriso di terra e radice, aspetta quell’avambraccio spugnoso che sottintende ripiani da sfondare a voce.
Penna ansimante regole scoordinate e parentesi claudicanti rotte al culmine del crepuscolo, assaggi mani tra labbra serrando passioni di un solo pomeriggio, addolcendo mitologie dell’infinito martirio all’interno del tuo fegato strozzato, i pianti dall’esterno cavalcano onde di mattoni e cunicoli, vecchi con le basette rimandate alle orecchie nella gestualità metodica di una pettinatura di denti e volto ti fissano concentrici e robotici di lentezza rivoluzionaria, asciughi lacrime di panni notturni lasciati scomposti nel post-modernismo di un vento contrabbandiere di conigli sputati dal cilindro impazziti nel contropelo di mani grasse e collinose nel sudore marcio post-lavorativo.
Squarci di sole diviso a metà da un punteruolo d’alluminio emanano bagliori innaturali precipitanti, sconfitti, sul lastricato, tuoni di risposte non cercate mettono a disagio il condizionale pronunciato smorzando urla di velocità protestante, alberi dalle chiome infantili di primavera vanificano la recita vanesia del fogliame marrone
e poi stendardi profumati di nebbia scivoleranno avvolgendo in mantello sornione le piccole gambe nude dei rami lasciati inerti e spellati, tu lì, posato maldestramente, senza cavalletto, alcolizzato d’aria respinta, morto in ginocchio.
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- Marciando sulla ridente P.
Prima o poi c’è un apostrofo a toglierti il senso del tutto. E pieghi le gambe per diventare quell’acaro incline al bianco. Pettini il tuo pavimento con aria annoiata. Giri fogli. Scrivi. Cancelli e scrivi. Riscrivi. Hai uno stomaco da gladiatore e ossa di montagna. Tra qualche giorno ti faranno soldato del “non ti troviamo”. Bomba, allora parliamone. Bomba, cosa vuoi che sia. Bomba, che combini lì da sola. Qualcuno ti accarezza la coscienza per sentirti cantare. Cantare come solo tu. Sai. Cantare.