Werckmeister Harmonies

Il ricamo desolato dell'inverno sprofondava gli sguardi nel terreno già esasperato dalla pioggia di settimane. Miseria illuminata di bianco si protraeva di processione in processione scaraventando quei corpi lenti e smagriti nello stomaco melmoso del quartiere 106.


Il braccio canuto del Boia si sollevò in un gesto stancamente autorevole. I passi ritmati si congiunsero in un immobilismo cadenzato. Nell'attesa della Parola.


Gli entusiasmi debilitati vengono premiati sempre con il disincanto. Centinaia di labbra spettrali si rivolsero in direzione di quell'oscurità camuffata sorseggiando vicendevoli paralisi di respiri.


“Al tavolo della Legge non si banchetta con i cadaveri dei traditori”.


Il Condannato venne trascinato all'interno della recinzione. Non più un viso né un corpo, soltanto una forma piegata dalle spalle prive di qualsiasi opposizione alla forza di gravità.


A forza di esaltarne l'ovvietà, la bellezza svanisce nel corrimano della sopportazione; succede nelle migliori, spietate, buone intenzioni. Si lacera sul nascere l'incoscienza per piangerne il cadavere ormai privato del pericolo più dignitoso.
 
Werckmeister Harmonies


Il bambino che sputa nel piatto ha diritto ad una mensola di oggetti fracassati, giustamente rotti nell’evanescenza cristallina del cosiddetto ridotto a ***** di cesso nel parco notturno e simili e di identica smorfia di bocca, bleah, quando il naso perfetto annusa e l’occhio coloratissimo di buoni propositi raggiunge nel perimetro orbitale. La cornea sia con te e con le tue strade di mani tese, abbracci e saluti, grassi saluti, sporchi di abbondanza, luridi di formalismi e salutami anche la tua sigaretta spenta a metà per la gradazione giusta e per invecchiare bene, e per invecchiare bene eccoti un biglietto per non ritornare più in questo spaventapasseri di quartiere dalle antenne rosicchiate da topi, dove madonne bagnate di mantelli celesti arzigogolano orgasmi metallici seppelliti in terreni calpestati da gambe sudate e sporche di viaggi interrotti.


Eccoti una speranza per non desiderare l’indesiderabile, eccoti una carta geografica bruciata agli angoli con il grande polo biecamente illuminato da una fatiscenza crepuscolare e animale, i tuoi coccodrilli da passeggio legati alle sponde del letto, i loro denti consumati e dondolanti, incastonate tra le loro unghie un tempo regali soltanto scorie, ora soltanto scorie, pezzi d’ossa, lavatrici prese a calci gettate da grattacieli dai piani di zucchero e nuvole.


Avrai una carta che dirà di te cose inutili, ti identificheranno stregone muto a recitare mancanza di applausi lamentosi nelle foreste in miniatura dei balconi cittadini, ti daranno una scopa per stramazzare al suolo materialismi dell’antisogno, i tuoi manicaretti domenicali ti faranno bene alle guance, alle ossa da uomo, ai seni da donna, ai fianchi da maglia non troppo lunga e il tuo ombelico sarà il centro dell’antiuniverso da dove tutti inizieranno ad esplorarti prima una sessualità, poi un gioco lavorativo alternato a fine settimana di pranzi al sacco sui prati di rugiada con formiche e minuscoli cromosomi dell’aria serena a rallegrare spasmi di non ansia e sarà questo il tuo segno di riconoscimento, un grande masso di pietra innalzato al centro di piazze ghiacciate, dove folletti dalle giunture elettronicamente controllate scaveranno per la sopravvivenza del tuo ricordo e saranno flash romantici o di velocità agguantata.


Saranno capsule ondeggianti a prendere il sopravvento nel lattice sulla pelle e lacci di scarpe di inestimabile scelleratezza a ricoprire d’argento millimetrico asfalti e praterie nella vendemmia silenziosa della moda del cielo in terra, la perfezione, l’estetismo matematicamente raggiunto, il calcolo esatto, la palandrana cospicua nel riscaldare freddezze di passioni scoperte.
 
Micropolitiche dell’avanguardia economica ti ingloberanno dalle caviglie ai cespugli sulle tue palpebre impossibilitate nella chiamata SOS, non ci saranno occhi capaci di interpretare occhi, solo algidi biancori corneali dove la benedizione del clock meccanico a porgere carezze di dita in scossa fremente, sarai messo a tacere da stratosfere di nebbia coriacea a delucidare l’onanismo interrotto delle precipitazioni e le stagioni incroceranno stagioni organizzate, il tripudio di mani inchiodate a mani impedirà la vibrazione di un sangue individuale nella tinta unica del non dolore collettivo.


Piccoli Hitler dalle automobili inzuppate di demoscopia ti ringrazieranno per le tue parole da ribelle inutile e zampettoso, coriandoli in testa e teoria del grande rifiuto impolverata tra tomi di biblioteca, tra scaffali disarmati di parole causa uova di ragni ammassate a provocare spazi liquidi e gelatinosi per le mani candide predisposte al rumore dei polpastrelli su quei ripiani screpolanti. Fretta, non posso che metterti fretta, sfiancarti di calci sulla schiena ragazzo, spingerti con violenza, arrampicarmi sui tuoi punti interrogativi, strapparti vestiti e cavarti rivestimenti di muscoli glabri, i tuoi occhi serrati non hanno chiavi, le dita devono penetrare e sopportare l’orrido del bulbo per improvvisare l’apertura di tende, le tue palpebre sono uncinetti impazziti che mettono punti in un autoerotismo delle dita intrecciate, filari di pelle abbandonano il loro ruolo da uscieri con fucili cobalto sotto le ascelle e concatenano rivoli di rughe nascoste nella tessitura trottolante delle cicatrici non sanguinose.


Lungo il percorso che porta alla peggiore delle entrate miriadi di custodi incappellati da sarti audaci improvviseranno sul tuo collo nudo sciarpe di seta infuocata che rovisterà tra le tue carni di sesso appena scoperto come una mandria di affamati in un pozzo di buone notizie, in alimenti avrai da spendere e da farti spendere addosso, il balenio investigato delle notti insonni si riverserà in pavimenti ricoprendoli di piccole ansie e ruvidi focolari del pensiero ti addobberanno fino al vermiglio scabroso, scivolerai sulle tue disgrazie emotive controllando accuratamente la resistenza di cuscini di piume strappate ad oche in scorribanda eccentrica nel grande bosco delle trappole mimetizzate ai cadaveri di aironi bifocali attrezzati di musi rovinosamente antichi in creta e pulviscolo di cartilagine, quasi umano il loro rintracciare compassione nel tuo ansimare nello spazio di due mattonelle.
 
Micropolitiche dell’avanguardia economica ti ingloberanno dalle caviglie ai cespugli sulle tue palpebre impossibilitate nella chiamata SOS, non ci saranno occhi capaci di interpretare occhi, solo algidi biancori corneali dove la benedizione del clock meccanico a porgere carezze di dita in scossa fremente, sarai messo a tacere da stratosfere di nebbia coriacea a delucidare l’onanismo interrotto delle precipitazioni e le stagioni incroceranno stagioni organizzate, il tripudio di mani inchiodate a mani impedirà la vibrazione di un sangue individuale nella tinta unica del non dolore collettivo.


Piccoli Hitler dalle automobili inzuppate di demoscopia ti ringrazieranno per le tue parole da ribelle inutile e zampettoso, coriandoli in testa e teoria del grande rifiuto impolverata tra tomi di biblioteca, tra scaffali disarmati di parole causa uova di ragni ammassate a provocare spazi liquidi e gelatinosi per le mani candide predisposte al rumore dei polpastrelli su quei ripiani screpolanti. Fretta, non posso che metterti fretta, sfiancarti di calci sulla schiena ragazzo, spingerti con violenza, arrampicarmi sui tuoi punti interrogativi, strapparti vestiti e cavarti rivestimenti di muscoli glabri, i tuoi occhi serrati non hanno chiavi, le dita devono penetrare e sopportare l’orrido del bulbo per improvvisare l’apertura di tende, le tue palpebre sono uncinetti impazziti che mettono punti in un autoerotismo delle dita intrecciate, filari di pelle abbandonano il loro ruolo da uscieri con fucili cobalto sotto le ascelle e concatenano rivoli di rughe nascoste nella tessitura trottolante delle cicatrici non sanguinose.


Lungo il percorso che porta alla peggiore delle entrate miriadi di custodi incappellati da sarti audaci improvviseranno sul tuo collo nudo sciarpe di seta infuocata che rovisterà tra le tue carni di sesso appena scoperto come una mandria di affamati in un pozzo di buone notizie, in alimenti avrai da spendere e da farti spendere addosso, il balenio investigato delle notti insonni si riverserà in pavimenti ricoprendoli di piccole ansie e ruvidi focolari del pensiero ti addobberanno fino al vermiglio scabroso, scivolerai sulle tue disgrazie emotive controllando accuratamente la resistenza di cuscini di piume strappate ad oche in scorribanda eccentrica nel grande bosco delle trappole mimetizzate ai cadaveri di aironi bifocali attrezzati di musi rovinosamente antichi in creta e pulviscolo di cartilagine, quasi umano il loro rintracciare compassione nel tuo ansimare nello spazio di due mattonelle.

Sì.
 
Seduto, in piedi, seduto, in piedi, il tuo culo una catena elastica a raddrizzare le percezioni sbagliate di chi ti ha costruito bagagli momentanei dove selezionare la resistenza dei tuoi anni accuditi in scheletro e carne, ti presenteranno solitudini in formato angelico di massa, di gente a complimentarsi per la tua impresa storica della venuta al mondo, saranno piegati di seni e labbra sul tuo inconscio scartavetrato a comprometterti istruzioni scardinandoti dal tuo passato anestetico, intorno un bianco movente ad acquisire forme di volti e scoppi di risa, pareti pettinate e letti colorati da bambini a sedici braccia allungati nell’euforia dell’evento fino a raggiungere un vertice atemporale, metteranno tamburi squamosi a pochi centimetri dalla tua messa in onda nel pandemonio e vedrai fiori piccoli, fiori esposti e silenziosi, incravattati ai balconi, pronti a lamentarsi senza presunzione di ascesi, quei fiori l’incontro estremo, li sentirai pulsare sotto il vento, li scruterai indemoniati nella discussione del petalo stuprato, cresceranno oltre tetti di macchine, oltre davanzali, oltre palazzi e tribunali fino ad immedesimarsi in un unico tono nella sfumatura insormontabile del cielo, quel cielo dove raccoglierai colori ad olio spalmandoli uno dopo l’altro facendone pavone artistico sul tuo corpo senza curve planando nell’ottobre tiepido fino alla radura scempiata accarezzata da finestre di manicomio spalancate su quel verde sfuso.


Furia e ragnatele strappate a soffitti con la violenza di mani disperate all’unico obiettivo, furia, capelli inzuppati nella velocità di corse notturne tra automobili di ritorno dagli alberghi, saltando da uno strato di metallo all’altro, catapultandoti, assaporando il sangue di un pezzo di carne separato in due nella perfezione del taglio ferreo dello sportello aperto, finestrini rotti a calci, furia e scivolate su olio imperfetto, furia sui dischi in vinile in mille pezzi collezionati fino a quel momento da magazzinieri delle strade tradizionali, furia e ancora grida dietro le tue spalle coperte da macchie di vita affrontata, sputi dall’alto, un dio qualunque imbiancato di capelli per la tua corsa da figlio ingrato a rovinare la bellezza metrica di poemi lucidati per le occasioni, furia ad accelerare sui ripostigli occasionali immortalati lungo i perimetri delle città come cabine telefoniche per gli sfoghi di amanti interrotti nel loro utopizzare, furia e capelli, sudore e sperma involontario a profanare l’educazione dei pantaloni, sotto le caviglie mondi sommersi da velocità di piedi e gambe, rumori di frastuono insopportabile a devastare catene di pace frizzanti, liquido di bottiglia catapultato da scale, furia nel grido opaco dell’alba che conta cadaveri dietro il tuo fiato smorzato.


Ascolta il blues soporifero delle metropolitane intasate di orologi dalle lancette ticchettanti secondi argentati, percepisci il focolare obliquo che sorregge marionette di benzina luccicante tra le piastrelle fumose e maleodoranti di quel pizzicare all’interno dell’olfatto, una condanna sensoriale, assapora il profumo riccioluto fattosi materia nel parallelo calcolato erroneamente dalle tue labbra al corpo, avvicina la lingua in corde di chitarra lungo gli argini cutanei, tu sei quel blues, ora nevrotico, che perseguita coscienze inchiodate a smog innocui, tu, il braccio destro dell’icona anticristiana che accende spazi con movimento rotatorio delle dita, veloce, velocissimo, irrazionale e tronfio, pennello spezzato che prosegue la sua angoscia illegale tumulando e riesumando senza sosta il battito cardiaco di biciclette senza ruote posate su cemento silenzioso lievemente assolato.


Ragazzo, abbraccia in sarcofagia le distanze ridotte tra oblio ed esplosioni lisergiche, spazza con denti rabbiosi l’uniformità di gengive, riconduci a misure inesistenti il ruggito instabile dei terreni insoddisfatti di pioggia. Ora sei frammenti di vetro conficcati in microcosmi legnosi che gocciolano artrosi, ora, diseredato dalla possibilità di un sorriso, puoi tuonare labbra in direzione di alfabeti zoologici e letterature di paglia, il tuo diluvio di suoni violacei scaraventa fonetiche e allitterazioni lasciandole ondeggiare, meretrici di oppio salato, in prossimità di papaveri apparecchiati dal vento.


Hai interrotto il viaggio tiepido di tartarughe leopardate, ne hai annullata la comparazione stilistica sollevandoti piedi sopra le loro teste, sei precipitato su bagliori ingabbiati esasperando le proprietà dell’aria, hai scardinato paraventi annaspando confuso, insetto moribondo, ali tritate, sei volato nudo sulla sinfonia elastica interpretando il rimbombo di controtempi alieni, assumendo posizioni incomprensibili, snodate, fili fragili, polverizzati, confusi, svergognati in un raggio nero.


La prosa smidollata dei vasi bagnati sotto i portici resiste all’inquinamento di fogliame burocratico, aspetta un altro mezzo sorriso di terra e radice, aspetta quell’avambraccio spugnoso che sottintende ripiani da sfondare a voce.


Penna ansimante regole scoordinate e parentesi claudicanti rotte al culmine del crepuscolo, assaggi mani tra labbra serrando passioni di un solo pomeriggio, addolcendo mitologie dell’infinito martirio all’interno del tuo fegato strozzato, i pianti dall’esterno cavalcano onde di mattoni e cunicoli, vecchi con le basette rimandate alle orecchie nella gestualità metodica di una pettinatura di denti e volto ti fissano concentrici e robotici di lentezza rivoluzionaria, asciughi lacrime di panni notturni lasciati scomposti nel post-modernismo di un vento contrabbandiere di conigli sputati dal cilindro impazziti nel contropelo di mani grasse e collinose nel sudore marcio post-lavorativo.


Squarci di sole diviso a metà da un punteruolo d’alluminio emanano bagliori innaturali precipitanti, sconfitti, sul lastricato, tuoni di risposte non cercate mettono a disagio il condizionale pronunciato smorzando urla di velocità protestante, alberi dalle chiome infantili di primavera vanificano la recita vanesia del fogliame marrone





e poi stendardi profumati di nebbia scivoleranno avvolgendo in mantello sornione le piccole gambe nude dei rami lasciati inerti e spellati, tu lì, posato maldestramente, senza cavalletto, alcolizzato d’aria respinta, morto in ginocchio.





  • Marciando sulla ridente P.




Prima o poi c’è un apostrofo a toglierti il senso del tutto. E pieghi le gambe per diventare quell’acaro incline al bianco. Pettini il tuo pavimento con aria annoiata. Giri fogli. Scrivi. Cancelli e scrivi. Riscrivi. Hai uno stomaco da gladiatore e ossa di montagna. Tra qualche giorno ti faranno soldato del “non ti troviamo”. Bomba, allora parliamone. Bomba, cosa vuoi che sia. Bomba, che combini lì da sola. Qualcuno ti accarezza la coscienza per sentirti cantare. Cantare come solo tu. Sai. Cantare.
 
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