Werckmeister Harmonies

Che al sonno sia taciuta
qualsiasi pace
ed il dirompere scannato a vuoto
resusciti le ingrigite formazioni
di strati disattesi di emicranie
tra il flauto di un canto di morte
e gote annerite
allora, che vuoi fare?
venderti al nemico
od inimicarti gli angeli
che ti sorreggono il moccolo
mentre sei lì che sputi sangue
al sangue non più tuo
che fai?
segui l'istinto
od istintivamente non seguire
la carne bruciata inquina
più di qualsiasi plastica
credibile
al netto dei rifiuti ricevuti
sovente non smaltibili
filemaziche dizioni
accertano il senziente benestare
tra l'oasi impressa nel disastro
che spalma fiati incongrui
in questo benestare non servito;
tieniti allora
la tua bellezza morta
come un giacinto camuffato invano
per certi astanti senza
alcun disagio cui nutrire
le proprie dozzinali devozioni
implora inerte
le convenzioni che ti son dovute
e lacera bislacchi fuochi
che scaldano soltanto rimasugli
che al sonno sia negata
qualsiasi forma di rimprovero
perché insegnare è un verbo decaduto
ed attrezzare armi
non sapendo mirare
è dannazione eterna
ma guarderò per bene
il tempo che ho investito
ad innamorare lembi
consapevole ed ingenuo
nel disperato contempo
di certi temporali lì in arrivo
che fai? Ti ripari ancora
fuggendo dal mio amore per la pioggia.
autunno. Lo senti in bocca l'amaro che esaspera la necessaria resilienza al cospetto della luce. Eppure. Già le vedi le foglie depositate all'alba, stravolte dal vento che bestemmia scandinave fiorite. Ho preso la questione degli eterni paradossi di petto e non mi sono mai sentito mancare il respiro; sono stato complice delle nefandezze inenarrabili e le ho cicatrizzate nel vortice di un battito di mani inatteso; brandelli sgangherati di depotenziate processioni di sensi: vi ho dedicato le pisciate più immorali riempiendo le vostre gole mai sazie di nuove frontiere, ho creato i drammi più spietati affinché poteste interloquire a bassa voce negli obitori della mancanza di libertà. Eterno servilismo del non essere disposto a sacrificare il mio stesso sangue nero che mi corrode inventando feste oscene; l'arresa sistematica con la quale vi calpestate disonora il senso stesso del perdersi tra aranceti. Illuminati dalle musiche più mediocri, persi in vangeli balsamici e scritturati per farse becere; non resta che raccogliere le foglie morte di questo temporale , coprirsene e disfarsene in attesa di vuoti migliori.

Metti il flusso di coscienza in metrica, che suona meglio.

La metrica non è difficile.
 
Spaventapasseri dalle pupille argentate mi rincorrono sventolando estasiati brandelli di vestiti appartenuti a pirati di campagna. Luciferi dalle ruote lisce accelerano verso il mio corpo stramazzato al suolo. Campanelli dentati mi svegliano in battito cardiaco abbracciandomi la spina dorsale e leccandomi il sudore.


Esseri moribondi, dai sessi scoperti e decadenti, mi aspettano a fermate dell’autobus controllando orologi tatuati sulle loro schiene squartate.


La città è un sogno incoerente dove passeggini ricoperti di tela celeste si capovolgono all’improvviso, voci stremate reclamano paternità nozionistiche e libellule in scala sproporzionatamente grande starnazzano con i loro metri di apertura alare sulle teste isteriche di evangelisti del fine settimana. La strada è un prurito fastidioso di piedi a calpestare piedi, milioni di passi a confermare sofferenze fisiche in una muratura umana continuamente lacerata.


Il cielo è affittato in sfumature viola nel tono grezzo di stratosfere spezzate a metà.

Non muori mai. In quelle notti dove cerchi uno spunto e se hai un raccoglitore di parole avanzi di lancette in base a quello, scopri seni timidi di versi transessuali che ti baciano il petto graffiandoti i capezzoli di rimmel sciolto verso i polsi. E non muori mai.


Stai lì e prepari il colpo per il minuto dopo, una bottiglia di vetro ti lascia spazio per accumulare errori, sbagli, sbagli di continuo e sbagli, polpastrelli rossi e sudore ad abbracciare la fronte, sei il più grande scrittore dell’umanità mentre il cielo si inginocchia a quello che stai per consumare nell’accozzaglia di pensieri e punteggiatura, non muori mai.


Cadono palazzi e mandrie di cavalli distruggono cortili in una furia da fuga, rumore naturale a sbalordire la decenza del sonno cittadino, hai dieci volte vent’anni nel giro di un paragrafo e agiti il tuo inconscio spruzzando all’apertura del tappo, liquido in lattina infastidito dalla gabbia d’alluminio, non muori mai, niente è tuo, il possesso è ridotto al non saperne nulla di proprietà e burocrazie, tutto il calore di sangue coagulato a formare lettere è limpidamente assorto nel ruolo di complicità dialettica scopata dai funambolismi del tuo eccesso svergognato.
 
Ho venduto l'aria a prezzi altissimi. Se i cimiteri non avessero alberi sarebbero semplici teatri di applausi procastinati. Odio l'estate perché è la stagione dello spogliarsi; corpi ignobili, sgradevoli, si manifestano con le proprie orrende nudità accessibili. Ho inventato feste terrificanti, ho sedotto i demoni più spietati affinché mi chiedessero un attimo di pace; ho dato vita a coscienze totalmente dispensate da qualsivoglia possibilità di fratellanza.
L'ora che arriva è fatta di vento imbastardito; ho il rifiuto nelle vene e lascio sgorgare sangue malato, assassino e complice; tutte le mie menzogne diventano verità inaccessibili e dorate, incommensurabili avamposti di una sofferenza straripante. L'orrenda vocazione che mi piega le gambe ha già il suo assestato e deforme pianto di malessere confuso nel ghigno; dunque sono narratore o assassino? Sono i fiori che nascono con la loro intestardita miseria a colorare l'imbecillità; guai a non averne, di occhi come i tuoi. Guai. Ad averne come i miei.
 
Siamo qui spogli
come alberi o grano
a pretendere un vento
che ci lasci addolcire
le miserie oltraggiose
che impigriscono i canti
siamo stanchi di avere
senza mai poter dare;
siamo stanchi di sguardi
in disunite stagioni
che ricongiungono al grembo
depravati mercanti
io lo so, tu lo sai,
siamo fatti di niente
e speriamo ignoranti
luminosi bagliori.

Siamo qui derelitti
come carni spietate
per la bocca dei porci
che ci leccano il culo
mentre stiamo fingendo
un'emerita patria
povera solamente
per chi la sa cantare

piuttosto che erigere
statue o stazioni
clavicembali sghenghi,
malfamate intenzioni,
tentativi di sguardi
da un po' già lacerati
come certe, offuscate,
presunzioni cretine.
 
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