Werckmeister Harmonies

Scrivo per te specchio, per la tua pazzia semplice abbandonata all’angolo di un locale tra eco di voci e odore di bagno non scaricato, per le stazioni affollate di sabato e per quelle devastate di silenzio nelle notti interrotte da treni merci, scrivo per il passaggio di una vecchiaia davanti ai balconi della somiglianza con il “non succederà mai” e per le uova rotte in testa a chi non ha creduto, per le cicatrici sotto gli occhi azzurri e sotto quelli rossi di sangue estratto come succo di noia da pomeriggi di stanze schiaffeggiate da deodoranti rovesciati su scrivanie, scrivo per braccia tese nei piani bassi con affitto in nero senza rate sicure, per i castelli in fiamme dei bambini uccisi di sogni in benzina.





  • Il romanzo è vergognoso




Questo romanzo, romanzo di cose nascoste e di sputi, vergognoso e bestemmiante dopo il vino, scritto senza carta, immaginato tra litri di macchine accantonate una sopra l’altra nell’angolo del fuoco divampante, questo romanzo scritto tra ossa sporgenti e capelli sudati, tra bicchieri quasi grigi di tempo sul tavolo, quasi rossi per il solito inchiostro nocivo al fegato, ma questo albero di cartone annegato cosa ne sa delle mille vite di un dito a battere parole e questo tramonto medico in triplice laurea cosa vorrà mai preannunciare morte se il mio dolore è un petalo disintegrato e questi oggetti queste canzoni mai ascoltate questi prolungamenti della nostra storia scritta dai parenti mai avuti e dagli amanti persi cos’altro sono?


Questo romanzo, romanzo che muore, vedi le sensazionali notizie del giorno ti illuminano come da brava stazione di fine primavera con il sudore degli ombrelloni scolpiti su carne





  • Ci sono prove sufficienti per




Dimostrare innocenza signor giudice, questo non mi è concesso, sono cresciuto tra voli spezzati di deltaplani e palle di Natale prese a pugni, mi sono addormentato in coperte riscaldate da termosifoni magri e ho sognato cose senza pietà sul mio senso di appartenenza alla pazzia degli errori ripetuti, le mattine, signor giudice, non hanno avvocati, sono colpevoli medagliate in oro che blaterano raggi e godono di suspance strofinano angoli di case mai costruite, si annaffiano d’ansia rincorrendosi sui calendari verdi della speranza nazionalistica, dimostrare innocenza, che ridere, ah no mi spiace per la vostra curiosità sofferente ma non ci sto, non sono dalla parte delle persiane chiuse per convenienza e i funerali delle montagne estive li guardo da un terrazzo insabbiato di droga nuvolosa, odioso sniffare dei sogni persi.

nnocente per nulla, colpevolizzo la mia resa dei conti, ho ascoltato sconfitte claudicanti dalle labbra morbide di anni spesi in supermercati a chiedere aumenti e spiegazioni sul giorno prima, ho riassunto lacrime in parole per poi far credere i sorrisi soluzione alle notti da dimenticare, ho aperto sportelli per chiudermi dentro metri di osterie nere di un metro quadrato, chiamale anche insonnie, dove il fumo si arrampicava gorilla scheletrico dalla coda infuocata lungo pareti cercando spazi per respirare ed era un soffocare d’ospedale, applauso sulla bocca, fischi alla tua opera migliore e mai che mi sia venuto in mente di non buttare nulla al vuoto.





  • Questa parete a pois disimpegnato che è la terra




Vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote”





F.Guccini – Canzone della bambina portoghese





Nessuna verità in questo prezzemolo bruciato di terra, dove a dormire neanche dopo la droga di un palmo di mano ad accarezzare tempie, non prende sonno nulla, nel letto immensamente rovinoso questa terra masticata da cani bipedi che raccolgono tagliandi per controllare la posta del non gioco, nessuna felicitazione stampata sul braccio angelico esteso a caloroso saluto, niente che sia tranquillità e lampi sgorgano, commozioni improvvise a fare giallo terrore, questa parete a pois disimpegnato che è la terra.





  • Primi accenni di zero




Niente, vuoto, zero, nada grandi impressioni e promesse politiche, nulla da perseguire, facce senza sogni, per cortesia, limiti disintegrati e morali inservibili.


E l'impressione che non sarà mai così.

Generazione di rose affumicate in un incendio sobrio nel suo limitare i danni ad una sopravvivenza, burocrazia e cambiali, assenze giustificate, maschere accumulatesi sullo strato cutaneo del viso fino a divenire pelle a loro volta, ricerca di stile, assenza di stile come unico stile, stanze profumate, stanze di grida catalogate, sessi di corrispondenza e culi riscaldati da un alone post-crepuscolare a fare tradizione culturale, cultura da perfezionisti delle idee, cultura ad imbrattare aule universitarie in pennellate di inchiostro simpatico a svanire al primo sputo in faccia ricevuto, mani sporche di promesse ad addolcire il freddo di mani protese ad uno stipendio mensile sufficiente per pagare danni e virtù presuntuosamente tali.

L'impressione che il vuoto non sarà mai abbastanza per scaraventare con un calcio in culo tutto questo.





  • Fegato e qualcos’altro a mare




Non è il colore che fa il mare. Puoi organizzare spedizioni cobalto dai tuoi occhi per illuderli di uno splendore in morbidezza arcobalenica, puoi affrontare i movimenti d’onda con un battito verde calma e puoi frammentare in schizzi d’azzurro-rosa nascita i perimetri incoscienti del bianco schiuma. Ma il mare ha i colori dei tuoi occhi.


Stai lì e graffi con unghie appena sopra la pelle, graffi sabbia in un rumore di formiche operaie nell’intento di un castello zuccherato tra saliva e colla artificiale, graffi senza rabbia e senza dolore, è una carezza timida che non si lascia intenerire e apprezza il cinismo ironico di nuvole mattutine in formato astrale.


Al mare non parli. Lui ascolta senza dare soluzioni di causa e luogo, piega il viso ridacchiando a mani giunte in falsa preghiera dietro la schiena, a nulla serve la commozione per l’incendio solare che dichiara alba, incendio senza fuoco in un bagliore mai meccanico.


Toccare l’acqua è cosa per dita silenziose che sorridendo si lasciano sprofondare nel ghiaccio.


Sai, credo di essere diventato alcolizzato.


E mi viene da ridere, mi viene da sbattere mani su porte, mi viene da.


Il mare sorride con me costruendo bicchieri azzurri.


Credo che il limite non mi appartenga.


Credo di essere essenzialmente in un lago di guai.


E nuoto remando di bottiglia.


E il mare. Il mare è un errabondo dai capelli pettinati, un padre di terre invisibili e gloriose nella loro invisibilità, il mare è un pazzo che ha fottuto un manicomio di storie già scritte e corre corre corre corre, corre corre, corre su questi capelli ricci abbandonati al vento come figli maledetti, corre nelle disponibilità di piume di gabbiani sepolti in onde troppo forti, dimmi che non è soltanto una corsa all’alba questo movimento di labbra e voce.


Del mare apprezzo la discontinuità, i vortici improvvisi, le lamentele senza lacrime, il senso di speranza che infonde quel colore astratto, la lucidità del vento e il rumore delle unghie sulla sabbia. Del mare conosco vizi e debolezze, del mare so verità nascoste a chi rende matematico il proprio orizzonte corneale.


La cornea, fissato con la cornea e con lo sguardo. Io pago l’indifferenza dei miei occhi, barboni zoppicanti che arrampicano idee su non idee, calzoni larghi per comodità e petto tronfio di esistenza presa a spallate e gomiti rossi, senza soffrire, soltanto per il gusto di una notte di lividi e bicchieri rotti.


Questo mare dalle antenne morbide, in ricezione ironica dei messaggi gravitazionali del mondo, questo mare con mani da coltivatore di pomodori, grezzo e poetico, tu dove lo raggiungi?


Tu dove lo senti?


Hai capelli da ribelle bocca sensuale, mani da accarezzatrice di sogni e gambe da ballerina. Dove lo senti?


Spero che quest’alba non sia mai tramonto.
 
  • Per chi non vuole più sognare




Alzarsi, in attesa di qualcosa, raccogliere carte o oggetti non importanti per dare senso al possesso delle mani, fissare la notte da una prospettiva di finestra e quasi caldo estivo. Lo scherzo danzante di una primavera mai esistita, aggancio tra freddo e sudore rosso di pelle, la primavera non esiste.


Calpestare qualunque mattonella nella speranza di un baratro che escluda la possibilità di una volontarietà di morte, il non concedersi al dolore di una famiglia in attesa di risposte mai avute.


Cercare risposte dove iceberg a forma di prati lasciano rotolare in quel verde freddo le sbronze del venerdì post-lavorativo.


Cercare risposte nei bicchieri allineati sui tavoli puzzolenti d’ansia d’amore, evitare di giocare a dadi con queste notizie di telegiornale che arrivano con la morbidezza di una tisana di nonna ad addolcire il sonno.


Per chi non vuole più sognare. Fare a meno di ali per volare, lanciarsi senza possibilità di salvezza fisica nel nulla imprecisato addomesticato da spifferi di vento, fare di tutto per tenere i pugni saldi in quel balzo oceanico nel blu mai baciato dell’Adriatico.


Specchio di niente e di nessuno, cercare amore in una speranza flebile che è siringa silenziosa. Fare meno rumore possibile per conservare la possibilità di gridare a squarciagola.


Tienimi per mano.


Il mio banco di scuola di oggi non è verde, non ha la scritta “Juventus *****” nell’angolo in basso a sinistra, non ha un sottobanco di gomme americane tolte con indifferenza dalla lingua.


È un banco completamente bianco. Qualche chiazza rossa di sbornie finite male, tanti modi esistenti per prendere pugni e infiniti modi per contemplarne gli effetti.


Banco bianco spettinato orme di polpastrelli, se tu mi dai la mano posso ascoltare il respiro di un livido assopire la sofferenza.


Sul mio banco non scrivo. Faccio poesia e pedalate, arrivando nel punto in cui partire è pessimismo. Il mio banco bianco conserva ricordi splendidi di occasioni fallite.


Andare verso il buio con gambe appena addestrate, pesanti per lo sforzo di una prima volta lontano da casa. Annegare nella dolcezza della notte.





  • Un respiro tutto sommato fragoroso




Non è una foresta quella che si appresta ad accogliermi a gambe spalancate ed occhi socchiusi, il suo desiderio non è una penetrazione, le sue vocali screpolano muraglie orizzontali senza fiatare ed è un invito malsano, impudico e corrotto che abbraccia il mio labbro leggermente gonfio mentre avanzo carponi in questo paesaggio criminale e alieno.


Sento respirare corpi deformi che manifestano la difficoltà dell’uomo di essere tale, vedo attraverso strati di buio intimidito una debole forma di sorriso senza volto su cui stamparsi ed è un affidarsi al vento bollente di questi luoghi il suo scomparire. Malato di sensi, non raggiungo punti, mi lascio sfiorare come una bara senza peso verso il rifugio immacolato delle tenebre. E non provo paura.


Addomestico il mio ansimare proponendo il volto verso direzioni sconclusionate reggo in mano una nostalgia di foglie sugli occhi ed immagino anni trascorsi dove la mia figura infantile e senza peli sul petto semina vortici tra lenzuola appena sudate e onirismi violenti. Ora non è questo il modo di non sognare, adesso la realtà è un crisantemo calpestato che sparge il suo odore di vita spesa. Respirare e respirarti, chiunque tu sia e da qualunque posto della terra tu abbia iniziato a rinunciare alle comodità di lacrime e belle parole.


Distruggi con me tutte le letterature del mondo, incendiamo biblioteche e sfondiamo tavoli con le teste di uomini dalle parole ricamate, inventiamoci una maschera dolce per attrarre verso i nostri sessi pulsanti i predicatori settimanali delle verginità dell’anima e lasciamo che i nostri coltelli inusati possano respirare sangue tra la carne grassa dei loro porti senza navi e senza onde.


I fiori che attraversano di sfuggita le nostre mani disattente non hanno alcun odore e si lasciano attirare l’un l’altro facendo sì che le nostre due solitudini possano arrotondare il proprio vagito in piagnucolii del sentimento di pena reciproca. Chiunque tu sia non lasciarti addormentare la poesia dai fiori, esaltali senza credere in loro e che la morte del cielo a farsi pioggia turbolenta dimentichi la differenza tra le nostre e le loro radici. I nostri petali e le nostre foglie continueranno a crescere a prescindere dal frastuono del mondo.





  • Di quando era possibile fischiare attraverso il vento




Hai paura di sollevare gli occhi alle domande, le pareti colorate sono un bisbiglio di serpente ad inquietare le tue possibilità emotive nelle risposte non date, scrivi con le dita una litania disordinata intrecciandoti tra sporco di plastica e odori di oggetti da disegno. E le tue virgole sono sussulti ad interrompere uno strato bianco di aromi di cucina, basilico e pomodoro di mensa.


Grembiule odore di detersivo, gomiti leggermente consumati, guardati mentre ti copri le spalle con una lacrima per evitare la dittatura di spiegazioni logiche e maggio, con i suoi prati rilassati, non riesce a farti eroe delle corse e un universo di altri bambini sembra spruzzare già estate tu nevichi fingendo maniche corte. E tremi dentro.


Hai paura di cortili affollati e voci senza umanità che tirano da una parte all’altra il tuo rincorrere farfalle artistiche, chiedendoti per quante direzioni i tuoi lacci di scarpa dovranno ancora inciampare prima di tamponare la tua frenesia diseducata.





Ti vogliono vedere medaglia lucidata sulle mensole di vecchi generali, tu evita quello splendore e brilla come e quando vuoi tra occhi appassionati al tuo disinteresse allo splendore.


E sarai stella come quando di notte i poeti ascoltano il vuoto.


E sarai punto interrogativo nelle certezze stupide di un universo intero.





Unghie rettangolari e matite più alte delle due mani sovrapposte, il legno, la cera, il pastello, tutto ad onorare la tua libertà di inventare che è ancora un granchio teso sotto l’acqua, tra sabbia e pietre, padrone della velocità di puntura e sornione di pori cutanei cui addolcire l’ironia di un graffio debole.


Capelli arruffati, petardi esplosi a vuoto lasciando sbuffi di cenere morbida.





  • Non ti leggo la mano ma




Dinastie chilometriche di metalli emarginati dalla durezza di un mercato globale si inchineranno al tuo passaggio imperiale tra una sbronza e un flusso di idee frammentate, lucidità di schiena di vecchio, raccoglierai detriti inutili in forma d’ago verde a comporre l’abete erculeo dei sogni d’infanzia lasciati perennemente bollire in un pentolone di sale inservibile senza possibilità di sciogliersi come certi giorni le nostre rabbie.


Gli stivali di ragazze appese alle strade saranno la tua somiglianza con la verginità e arrancherai a forza di mentire alla tua morale cattolica prima di scendere a compromessi con l’orgasmo e farai del tuo corpo un ascensore verticale senza ritmi.


Chiederai agli anni da compiere quanto ancora potrai esultare per una scena da cinema nella tua stanza puzzolente di corpi scaldati da un abbraccio nulla dolce che esula dalla bellezza dell’innocenza.


Chiederai di spingere pulsanti di voglia stuzzicata a chi reggerà il tuo membro scomodo per uno slip sornione nel non farsi scorgere attraverso le finestre e il tuo condominio prenderà le tue grida come una soddisfazione saffica o da canzonatore della purezza.


Chiederai un diversivo a chi raccoglierà per te strati di sorrisi in un vocio sommesso addormentato dalla morbidezza di lenzuola sudate.


Chiederai di partecipare ad improvvise esaltazioni dello spirito quando bocche odoranti di carne faranno di tutto per amalgamare la loro insincerità con il tuo lascito emotivo rassegnato ad un asciugamano di bagno a smacchiare colpe, prete addestrato, cane pronto a salutare in silenzio prima di un addio, piccolo soldato senza denti che spara frammenti d’infinito dicendosi estasiato da un contatto inesistente con la prima divinità a soccorrere le incertezze umane.


Chiederai un vento che non sia soltanto aspirapolvere di stupide utopie ti proporrai per posti da servitore anale di una società volgarmente repressa nel suo stantuffare piacere limitandosi all’oppio scadente della gratitudine offrendo baci di doppie labbra e spifferi d’odio attraverso mura insanguinate e storte dal peso di pance e seni troppo gonfi.





  • Tutti in corsa tutti immobili




Ho fantasie da primo giorno di culo perforato, quando mi abbraccia il tragitto di un treno mai viaggiatore, mi abbandono alle curiosità appuntate degli altri occupatori di sedili e non guardo mai troppo quello che circonda in una verticale falsata, mentre la velocità macina istanti e i graffi sul collo dei paesi si sciolgono volta per volta rimane una lucidità brillante nelle mascelle di quelli pronti a scendere, resta un po’ d’aria di finestrino appena sollevato per poi assumere una posizione dispettosa all’aritmetica dei buongiorno e buonasera, tutti in corsa tutti immobili.














  • Vertigini non topografiche




Il tuo letto a scalini tempestati di artigli tra il bianco e il grigio di partenza, scendi posando i piedi e ogni mattina non percepisci l’altezza della tua testa adolescente sempre meno tale e i graffi sul viso dei tuoi non risvegli sudando verso quadri svedesi su cui arrampicarsi per sfuggire alla realtà, dormendo uccidi la tua parte materiale e arrampicarsi è sempre più facile con quella testa zeppa di giallo limone schiantato.



  • Le pavimentazioni cedono


Se penso alle atmosfere di questo pomeriggio di inizio estate percepisco le credenze ammutolite e i pianerottoli tristemente spolverati in questo immenso sonno cittadino, rami di alberi propensi a sorridere di crescita ignorano che qualsiasi processo di maturazione si rende inutile al cospetto di questo bersagliare continuo e non è una questione di cielo, le palpebre di vecchi poco meno che sepolti osservano con calma di animale in allerta, le teste si scuotono, le pavimentazioni cedono, il sangue si fa forza e rovina il pudore di mani in attesa di semplici bianche lacrime di addio, tutta la rabbia di un centenario sfiorato in quel no gridato come l’ultima possibilità di voce; intanto i pianeti vibrano al battito di mani di una platea istupidita e logorroica nel suo idiota assecondare il niente. E un’altra sera si avvicina presentando notte spettrale.



  • Fine disarmonica danza


Ora tutto quello che mastica pavimenti e asfalti non è altro che la tua stessa danza disarmonica, aspra di buone concezioni, catapultata in sprazzi d’ansia e angoscia e, infine, paracadutata senza avvertimento di tot. metri dal terreno approfittando degli occhi chiusi dalla paura. Esplodi contro un cemento martellato da seicento braccia rugose e annaffiate di sforzo operaio; schizzi di grigio città annegano in scampoli di celeste mai esistito ed è un’allucinazione visiva che gioca il suo sporco ruolo di imprevedibilità e incoerenza amalgamando terrori infantili e senili, cospargendosi di un battito cardiaco in bilico tra l’immaturità di un sogno e la maledizione del puro disincanto.



  • Dignità di un’apocalisse mancata


Li vedi, a testa bassa, che attraversano il cortile delle tue sensazioni e sono privi di gambe capaci di una fuga, palpebre arresesi al significato assoluto di un dogma, peli imbiancati da secoli di metafisica astrale a corrispondere emotivamente con massacri organizzati, togliendo alla bellezza della violenza l’istinto che la rende pura.
Carri di buoi incontaminati che sperperano mugugni senza piacere, risate atone che sdrucciolano sugli stessi volti a partorirle, semidei dai gomiti consumati nell’arrampicata finale in cerca di un’apocalisse che si degni di incidere su lapide la sigla fine, tutto questo orgasmico sincronizzarsi per ottenere pace dei sensi.





  • One point zero zero, one of june




Giugno è fatto così, un piatto vuoto, composto, leggermente bagnato, nel quale osservi sfumare al massimo un sudore appena accentuato tra la fronte e l’interno delle mani, un corpo intimidito dal sole, spazio candido che non propone nient’altro che formalità, ultime scommesse calcistiche; baci di stazione, semplici, formulati ancora prima dei biglietti.


Mese senza persiane, la luce entra da qualunque angolazione ed è impossibile sentire freddo, piantagioni senza speranza di crescita improvvisate a pochi metri dal tuo tavolo di stanza scalpitano tra polvere e residui di scrittura, monete abbandonate, sigarette incastrate in pacchetti testimoni di utilizzo. Con gli ultimi attimi di utilità a disposizione del tuo vizio di filtri e accendini.


Giugno non si pone speranze, marinaio goffo, sensi attutiti. Sessualità implosa. Crateri adombrati nei quali una quasi estate sparge scampoli ottusi di sole, ginocchia meccaniche e goffe, russare fastidioso, carta strappata lentamente sotto il bagliore vocale di un orologio di campanile che ammette le tre di mattina.


Giugno senza contraddizioni, vedovo dalle rose appassite sul comò, pianta abbandonata al suo angolo di ragnatele perpendicolari. I cani imperversano nei loro gruppi anarchici tra cassonetti di un verde sbiadito e cartelli di lavoro in corso, pisciano sui tronchi a costeggiare le strade, sbraitano, annegano nel buio.


Giugno è uno di quei cani; cammina lento, svanisce senza clamore. Appena in tempo per detestarlo nel suo girovagare inconcludente, già morto alle tue spalle. Lasciandoti il ricordo di un raggio lunare, basso, inutile.





  • Intento insegnare zero




Senti che aria di fasci”


C.Lolli, Curva sud





Lolli lo dice con voce tremolante, mai senza rabbia, bambino timido con desiderio di mettere a luce un torto.


Ascolto Lolli, il pianto del sole è di una dolcezza mielosa e antipatica, fastidiosa, ascolto Lolli mentre l’estate mi abbraccia come fosse una parente innamorata del mio starmene in disparte, che dice come sei cresciuto e tutti questi capelli dietro le spalle ti fanno sembrare una donna, ma sei bello lo stesso.





Stasera c’è aria di nebbia.


Non ho mai iniziato una sola frase con l’intento di arrivare a qualcosa, questo romanzo puzza di angoli di strada e vino, di dolore e sesso casuale, di amore lasciato cadere e di rami di alberi spezzati per il peso di una responsabilità rifiutata.





Le donne del mio cervello camminano disordinatamente e si allontanano, rimane soltanto Lolli a spiegare l’aria di fasci. Tu, tu che leggi, la senti?





Io la sento con e grazie all’alcol, mentre scrivo il romanzo più disordinato della storia che non ha nulla da dire, ci sono libri che non devono chiedere nulla, insegnare zero, partorire emozioni iniziando dal dolore di una notte insonne e tutto il fumo di questa stanza non basta ad annullare l’odiosa pulizia di giardini falsi innalzati sulle città italiane.





Lolli ha smesso di cantare, il cielo ha una virgola sul collo a dire nuvole, quindi passaggio. Quindi senso effimero, l’aria di fasci si disperde, fa freddo solo lontano da qui.



































Capitolo II














- Mi hanno detto che





Mi hanno detto che con il talento e basta non andrò da nessuna parte. Ho risposto che quello sarà proprio il mio posto.


Allora ti metto in parole uno starnuto di rancidi sedentari dell’agiatezza, i loro nasi che tirano su e gli occhi di lacrime, lacrimoni ad allagare il ghigno ombroso che ho, che porto dinanzi alla sorpresa di quel gesto di bocca e anatomia dove disperdi democraticamente all’aria parti di te disconosciute, allora ti porto da mangiare cioccolata sciolta su un libro scritto male fino a dirti lecca anche il fondo della pagina, le lettere, le parole che detesti e ingoia fino a quando saprai ridicolizzare chi impara a memoria, allora ti pettino le orecchie musicandoti respiri mai usciti da una grotta che è il luogo dove, il luogo che, il luogo in cui succede che io dica allora.





  • Per voglia di chi




Ortensia che si sbuccia di colori in inverno, vento dell’est piegato in due su un pavimento, sei questo mentre la notte si trucca gli occhi di bianco, appoggiando le sue trame narrative sulle schiene spezzate di sbandieratori di sconfitte meglio noti come scrittori per voglia di nessuno.














- Stagioni dondolanti





Foglie di novembre sporcano con distratta rassegnazione i vetri delle automobili, si infilano tra le plastiche rafforzate di tergicristalli ammutoliti in orizzontale nella loro nullafacenza, un tramonto qualsiasi batte con violenza i ritmi di violini lasciati cadere lungo scale mai pulite che rimbalzano suoni ammortizzandoli tra polvere e creste di rugiada artificiale lasciata pendolante sui corrimano, senza odore.


Raccolgo con le dita una parentesi di autunno e lascio disperdere al vento i rimasugli, mi accontento delle dita insaporite di granuli grezzi.


Penso ai parchi che in questa stagione si lasciano affollare da operai di città, chissà quale città, anneriti in volto e sorridenti mangiando panini abbracciati da carta stagnola e mi ricordano merende di scuola e mani ad accartocciare formando sfere mai troppo dure per sbattere contro una lavagna, accecanti luci di inizio lezione e capelli di bambini ammucchiati sopra il verde di banchi, minuscoli tavoli per grandi quaderni incompleti, penne mordicchiate sulla punta, inchiostro lievemente tra le labbra. Penso ai parchi e all’altalena, senza corda, ora, senza.





- Fermate le persiane





Sollevando lo sguardo, trovando nuvole camuffate in candelabri mendicanti, mimetizzàti nel verde riflesso di terra incontaminata, sovrapposizione di sensi che assume la tonalità spezzata di una punta di matita violentata su una parete con l’arroganza inevitabile di un rastrello su terra bagnata, marciume e fango sulla pelle, strati di pensieri ammutoliti nella vitalità dei pori cutanei soffocati da stoffe ruvide a prolungare sudore, ronfare clandestino di gatti arricciati, l’uno sull’altro, dietro garages rugginosi assassinati lentamente di pioggia acida e verde, un verde di collina, purissimo, succhiato con invidia dagli smeraldi delle figure immobilizzate sui terrazzi, vecchiaia e disillusione, un verde fiabesco rinnegato da foreste meretrici di smog.


Piegando il capo sulle serrande magre che nel rumore pomeridiano annunciano il tuo ritardo sul mondo.


Piegando le gambe, controllando rapidamente la vista, facendo scricchiolare le ossa delle dita, conducendo il tuo respiro debole, infastidito dalla limpidezza del giorno, verso il bagno, oltre il dentifricio e gli sciacquoni del piano di sopra, arrestando di getto le tue mani appena bagnate, chiedendo allo specchio la dignità di una barba frastornata sulle guance, intervistando con gli occhi socchiusi il biancore acerbo che ti perseguita.
 
  • Non sono immagini di morte




Corpi riversi al suolo, tappeti obliquamente generosi verso i piedi instabili di chi percorre a passi involontari e goffi nel tentativo infantile di evitare altri lividi, avanzi ripetendoti in testa non sono immagini di morte non sono immagini di morte non sono immagini di morte e riconosci nel mucchio un anello di catrame ormai inibito di luccichio, ne scorgi i tratti che te lo rendono familiare, ne assapori di occhio tremante la struttura che lo benediceva perfetto in quel dito e ti dici non può essere vero tutto questo, allunghi un sorriso di speranza nell’ignoranza della realtà e percorri, ora velocemente, quell’asfalto di carne dondolandoti nell’imitazione sobria di papaveri scarmigliati dallo zefiro tra il granoturco, il tuo ovest alle spalle perde sangue come lacrime di bagno all’asilo, sequenza incoerente e fragile, l’egoismo del rumore scalpita dietro di te quando oltrepassi regioni ossute, giungi in un angolo di erba modellata da miele, distendi le gambe e riposi, sorridendo all’eco tiepido che annega gli argini del risveglio.





- Ispirazione





Frigorifero, piegandomi verso una mela. Flash. Ecco cosa dovrò scrivere. Masticando una mela, avviandomi verso la scrivania.


Bagno, vasca, sciacquandomi i testicoli, mattina inoltrata, quasi pomeriggio, svegliato da un volgare rumore di pranzo - passato. Flash. Ecco cosa dovrò. Asciugandomi appena i capelli, straccio su straccio, a piedi nudi verso la scrivania.


Fumando l’ultima sigaretta del pacchetto - dalla notte avanza sempre qualcosa, a ricordarti chi sei stato in otto ore. Eccomi.





  • Siamo pur sempre ospiti




Il vino che porta la vicina, che sa di mani a serrare l’uva in polpastrelli, sa di corpo caldo, di carne umana, bottiglie pesanti lasciate nella parte posteriore dei mobili, soltanto uno sportello a separarci - ma io so che sono lì.


Aspetto che vadano via tutti. Li odio. La vicina, chi la accoglie. Avvicino l’orecchio alla porta della mia stanza, capisco di essere rimasto solo. Finalmente. Il nervoso, caldo nel cervello, va scemando in un’arresa moribonda, arbusti soggiogati da un incendio. Posso bere.





- Nulla su cui sedersi





Sono giardini ricamati d’argento scivolato dalle dita, sudore tiepido e senza nulla di carnalmente umano, gocce snelle che fermentano negli spazi dove l’umanità non costruisce case, nel rifugio di baci adolescenti, la loro spiritualità zittita che pavimenta il vuoto con residui di mantelli nuvolosi, giardini senza panchine dove sedersi, contemplando le carnagioni cobalto semplicemente restando incatenati a petali di fiori pietrificati nell’assenza di suoni.


Terreno modellato da fughe di gambe in amore e componimenti orchestrali adagiati su scarne ombre, cordialità di spifferi d’aria a patrocinare l’invasione di ali di insetto, avambracci cremisi accarezzati da biancori lattei nella composizione disordinata di un rosa abbandono.





  • Questo tipo di alba




Il caldo nutre aforismi onirici ossidati tra cuscini zeppi di repressioni infantili, la schiena, un forno in polvere sciolta ad infangare scapole, crocifissa in dolori liquefatti, serri la pelle sulla cornea e nel buio non c’è sostegno, porte spalancate non offrono pietà alla gola cementata, gli unici suoni, dall’esterno, categorici sulle possibilità di sonno, sollevi il busto, fissi l’inferno privo di ghiaccio che ti circonda, armadi e mobili incastonati in chilometri di ansie, soffochi e allunghi le braccia, tocchi te stesso disarticolato per mattonelle, ti senti, ti vedi, ti osservi, sei una strada in salita nel parallelismo ottuso tra vita e dovere, il caldo vomita di continuo sul tuo corpo quasi completamente nudo, inzuppato di carbone ardente, allagato di isterie motrici ad infrangere le regole del funzionamento moderato, acceleramento continuo, tosse cannibalesca che ingoia, sorniona, follie fisiche cicatrizzate al mattino inoltrato.





  • Troppi documenti scaduti




Neve addosso, come un rapporto senza dignità fisica, solo respiri. Ci sono frontiere allestite per chi corre, ci sono spazi enormi riempiti di microcosmi violacei a rendere livido un planisfero effimero ingabbiato dai tuoi stupori dinanzi all’enorme possibilità di camminata, neve che agguanta petti nudi martirizzando capezzoli e ascelle, non è questa la concezione di volo che cercavi. Punto non interrogativo, punto perentorio, cattivo.





- Il guardiano è rientrato





Dietro ai cancelli si cibano di note stonate, attendono con ginocchia arrossate e lividi sul collo, prigionieri del nulla e nel nulla relegati, lacci rovinati dalle precipitazioni nel loro rimanere perennemente sorretti alle inferriate, capelli isolati ad ammuffire di fragilità sotto i piagnistei ventilati filtrati dai cunicoli, mattoni sbattezzati, frantumi.


Un vestito che sa di detersivo e mani esperte nell’evitare strappi, braccia nude esposte allo sbadiglio inerme dell’estate, cammini, sfiorando rami e inciampando in costellazioni, dimagrito, nella lucidità degli occhi, sogni a piccoli intervalli, sorridi ad anziani immacolati nei loro bisbigli di quartiere, facce scolpite da reumatismi e insonnia si precipitano sulla tua mole da eterno ragazzo e chiedi spazio per varcare la soglia. Loro non vogliono, ma tu sei già al primo piano e cammini ripensando allo strano tentativo di intrattenerti poco prima delle scale, il sudore accennato si condensa con quel detersivo di casa, cerchi la chiave e ti lasci scivolare verso l’interno, mattonelle scialbe rispondono al tuo soffice calpestare il pavimento, ti dirigi verso la camera, riconosci l’abbraccio delle pareti ammortizzate da illusioni decrepite.


Il balcone si scaglia verso il vuoto come una vendetta sul vento, avvicini le mani calde alla balaustra e ti sporgi, fissi di sotto. E vedi.


Dietro ai cancelli. Sono lì, attendono monete arroventate e bagliori nefasti, ricompongono il mosaico sibillino sotto il tuo stupore, accatastando grida represse e palpebre irrigidite.
 
  • Sempre, comunque, le stagioni




Se a te non piace questa musica fermati ad osservare le mani sotto il fumo di questa sigaretta che morde gli angoli e i mobili, mostra la lingua al buio, passa attraverso le fessure orbitali di mostri da condominio che recitano versi lunghissimi mai finiti, versi mai versi.


Che c’è di strano nell’accarezzare la testa di una bambola invisibile. Non è una questione di tatto, non è una questione.


Se a te non piace questo modo di fissarti mentre cadi non aprire gli occhi, sei un aprile ingenuo che parla ancora di inverno sotto nuvole bollenti quasi bollenti e a piovere sono sempre e soltanto i soliti posti e a farsi piovere anche, sempre, comunque le stagioni.





- Questo tipo di lenzuola





6.00 del mattino, letto appena stropicciato, serrande risollevate dopo neanche un’ora. Rumori non accatastati, sigaretta alla finestra fissando senza interesse ma con contemplazione l’alveare vuoto che è questo quartiere a spalle sotto le lenzuola sottili di luglio.





- Ti racconto una fiaba





Farfalle ad ammutolire la rigidità di mattoni e il palazzo è un intreccio di ali colorate, guardale partendo dalle tue dita, senza toccare, fai filtrare un rivolo di fiato nello spazio che separa la tua unghia quasi bianca da quel fogliame arcobalenico che istiga l'aria al sorriso.
Passanti si immobilizzano come bambole di legno sui letti, stessi occhi enormi, medesime acconciature rinvigorite da una sterzata di tempo non catalogabile, riescono a fotografare nella loro finestra, bagaglio di ricordi, l'onda sottile che prosegue mangiando quei mattoni, ingoiando, con la bellezza delle cose che accadono senza chiedere.
Ci sei anche tu. Ti fai spazio e corri. Qualcuno sta distribuendo caramelle.





  • Niente che non sia immaginazione




Entrare senza chiedere permesso, lasciarsi cadere su un pavimento mai tangibile e occhi chiusi stimolare la rigidità di tempeste di voci. Fissarsi da un’altezza vertiginosa, anima sollevata da terra


che scruta la massa di carne e brandelli di vestiti.





- Guccini fans club





C’è una ferrovia che annulla qualsiasi volo di fantasia cerebrale, un posto privo di foglie dondolanti, una macchina algoritmica che si impone senza mai frenare, letti di metallo infiniti cigolano sotto il peso asociale di quei detriti di meteorite appiattito, c’è un pianeta che esplode ad ogni chilometro lasciato alle spalle e dove finiscono le rabbie fumose in ritardo sul vento nessuno lo sa.


Parchi e condomini, terrazzi aromatizzati di barbecue e carbone, iridescenti grate massaggiate da un pennello di buoni propositi. Tutto inglobato nel verso accigliato della macchina, reumatismi di prati gialli di grano a mormorare sconfitta sotto la ruggine a grattare i binari, acqua piovana disinnescata lungo i finestrini scuri e sporchi che negano una sosta gocciolante, brandelli di mani rovesciate a disacculturare qualsiasi capacità di applauso, clap clap clap è soltanto un grugnito di rotaie e combustibile improvvisato, amalgama di odio e indifferenza che pavimenta selciati decrepiti senza possibilità di ponti.





- La bella addormentata





A quel tempo, pagine su pagine di spettri ubicati tra fronde di alberi in ville affannate di fuga da luci e città lasciate marcire nelle biblioteche festeggianti enjambement partoriti da poeti scalzi, scuole medie intasate di varicella verso il periodo marzo-aprile, una primavera di dieta involontaria e lo sviluppo del corpo di bambino ad arricciare peli, vizio delle sigarette a portata di accendino, scrittura di un anonimo artigiano a tenermi incollato alla pagina a venire come un regalo da scartare per sapere se effettivamente è.


A quel tempo, oltre la ferrovia, la Bella Addormentata allungata a nascondere piccoli paesi, dalla mia finestra vedevo i suoi seni cuciti da un sole raffinato di maggio, la pietra folta di vegetazione a sincronizzare i colori del cielo con ansie, mia nonna dalla veranda a chiedermi cosa vuoi per cena?


L’estate tra biciclette e campanelli con nomi buffi sporcati dalle nostre impronte digitali e la parola da dire era solo correre, tutte le vie erano un rifugio, tutti i rifugi erano vie strette strettissime dove le gambe mai incastrate, noi, stuzzicadenti a rimbalzare, oscene risate ad accordarsi per il giorno dopo che è sempre, puntualmente, arrivato.
 
"mostri da condominio che recitano versi lunghissimi mai finiti, versi mai versi"

Peccato per me, ma de gustibus...


Guccini fans club





C’è una ferrovia che annulla qualsiasi volo di fantasia cerebrale, un posto privo di foglie dondolanti, una macchina algoritmica che si impone senza mai frenare, letti di metallo infiniti cigolano sotto il peso asociale di quei detriti di meteorite appiattito, c’è un pianeta che esplode ad ogni chilometro lasciato alle spalle e dove finiscono le rabbie fumose in ritardo sul vento nessuno lo sa.


Parchi e condomini, terrazzi aromatizzati di barbecue e carbone, iridescenti grate massaggiate da un pennello di buoni propositi. Tutto inglobato nel verso accigliato della macchina, reumatismi di prati gialli di grano a mormorare sconfitta sotto la ruggine a grattare i binari, acqua piovana disinnescata lungo i finestrini scuri e sporchi che negano una sosta gocciolante, brandelli di mani rovesciate a disacculturare qualsiasi capacità di applauso, clap clap clap è soltanto un grugnito di rotaie e combustibile improvvisato, amalgama di odio e indifferenza che pavimenta selciati decrepiti senza possibilità di ponti.

@Alloro
 
- La bella addormentata





A quel tempo, pagine su pagine di spettri ubicati tra fronde di alberi in ville affannate di fuga da luci e città lasciate marcire nelle biblioteche festeggianti enjambement partoriti da poeti scalzi, scuole medie intasate di varicella verso il periodo marzo-aprile, una primavera di dieta involontaria e lo sviluppo del corpo di bambino ad arricciare peli, vizio delle sigarette a portata di accendino, scrittura di un anonimo artigiano a tenermi incollato alla pagina a venire come un regalo da scartare per sapere se effettivamente è.


A quel tempo, oltre la ferrovia, la Bella Addormentata allungata a nascondere piccoli paesi, dalla mia finestra vedevo i suoi seni cuciti da un sole raffinato di maggio, la pietra folta di vegetazione a sincronizzare i colori del cielo con ansie, mia nonna dalla veranda a chiedermi cosa vuoi per cena?


L’estate tra biciclette e campanelli con nomi buffi sporcati dalle nostre impronte digitali e la parola da dire era solo correre, tutte le vie erano un rifugio, tutti i rifugi erano vie strette strettissime dove le gambe mai incastrate, noi, stuzzicadenti a rimbalzare, oscene risate ad accordarsi per il giorno dopo che è sempre, puntualmente, arrivato.





- Lontani dalle finestre





La pioggia sfigura il ferro antiemotivo delle macchine e i fili elettrici sollevati dal suolo graffiano l’aria con intenzioni stanche, mascelle basse di un generale in pensione. Penso alla marcia serale che nel traffico assembla suoni e i balconi sembrano orecchie di gatti infastiditi, viene la primavera o viene l’inverno sono rumori di un’arroganza estiva, lo stesso ghigno da sedia di barbiere a lavoro eseguito, la presunzione di pagare per qualcosa che viene resettato, capelli o barba, signore?


Non può accadere niente con la lentezza delle mattinate in treno, l’insonnia del mondo è reperibile in ogni angolo civilmente spremuto e ad assaggiare, eccoli, i cantori nudi degli addii rimandati, l’eloquenza magica di questi gobbi della scrittura di lettere d’amore e di per sempre, insultati da spirali di vanità artistica posizionata sotto radici inzuppate di alberi nei parchi che sembrano ossa umane, lo ricordi l’ispettore del romanzo giallo? La sua camminata tra fango e stelle negate al cielo?


Se piovere è un momento di relax eccoti un orologio non funzionante per arrivare in ritardo ovunque - perché arrivare? Ti metto punti interrogativi, donna anziana che aggiunge posti a tavola, ti offro la possibilità di un “ecco rispondo”.


Che si allaghi questo cortile e il mondo intero, bavaglio strepitante in materasso, possa soffocare ridendo di tentativo mal riuscito, poi basta speranze, lasciale a chi guida per avere mani su un volante e che i viaggiatori possano pagare il vizio di una distrazione volando in posti mai zappati, dove la terra è a forma di canzone da scrivere.


Ancora pioggia, siamo nel posto sbagliato per restare dietro finestre, occhi da atleti del nichilismo e muscoli nelle contrazioni del cuore, capillari esplosi e mandrie di interventi chirurgici in prossimità dei dubbi, che stracciona la nostra altalena a dondolarci facendo dei nostri capelli una zuppa di liquori secchi.











- La notte è un seno bianco





Il buio è uno strato di pelle bianca a formare un seno, dondolante tra l’imperfezione dei tetti e fantomatiche lune improvvisate da ragazze innamorate a schiudere gli occhi sopra cuscini di case riscaldate.


Una formosità argentina, ricoperta di seta generata da mandrie di dita eleganti nell’intrecciarla tra fiabe riassunte in libri dalle pagine gialle e nostalgie di tempi di guerra, con il dolore del caso e la poesia del ricordo di camini lasciati accesi tutta la notte, con gli sguardi di una strana speranza sgorganti dai volti di madri sempre incinte.


Il mangiare per i randagi è freddo sotto il balenio prolungato dei lampioni, motori rombanti un ritorno a casa decelerano in prossimità dei portoni per infilarsi con gesti tiepidi nei parcheggi. La notte è stesa in un campo di rose senza spine, a masticare loquacità di primule posate da ginocchia religiose.


Il pianto ammorbidito del pomeriggio ha lasciato residui di polvere di falene umane acciottolate lungo il tragitto eternamente incompiuto, che porta ad unire strade infestate di gas in procinto di esplosione e taverne di paglia a ristorare di silenzio avventori piacevolmente sperduti.


Chi le chiama lacrime dovrebbe privarle della sofferenza.


La notte è un seno bianco ad accogliere ginocchia timide di folletti delle lenzuola, la dignità di attese non rimandate per appuntamenti d’amore è dipinta a mani nude nel riflesso di specchi invisibili sospesi tra rami di querce di rigore soldatesco.


Il buio ha sul respiro il compiacimento fisico di una schiena massaggiata, i cespugli di mezzanotte brulicano, falsamente infreddoliti, osservando gambe intrecciate e balconi formato stazione radio ad emettere poemi senza matematica.





- Non addormentatevi mentre nevicano bolle di sapone





Distesi a terra, innaffiando con parole secche la piantagione di idee cadute, muri e coralli falsi, vetri infranti, giornali datàti ad importunare con mestizia rassegnata la liquidità impalpabile di materassi improvvisati.


Buste di plastica adottate per voli di sguardi, dove finiremo calpestando mirtilli disorganizzati fino ad essere polpa incoerente senza zucchero? Volti di donne in fila per pagare, la spesa nei carrelli e le scarpe con tacco di gomma, migliaia di notizie espulse a sedersi moribonde nei discorsi tra bar e lavatrice, balcone e gerani, lo smoking dell’aria è massacrato di tagli insulsi e l’eleganza di una moda interrotta bussa alle piastrelle dei bagni appena sgomberati.


Distesi, senza convertire le braccia a pesi, bocche socchiuse ad esalare sillabe come spalle voltate a denti serrati in attesa di risposta, non c’è peggior silenzio di quello già tradotto in decine di pensieri a venire, i deltaplani affittati dalle nuove generazioni impiegano minuti interi per cadere nel mare e barche senza remi soccorrono a furia di legno tarlato quelle ingenuità a metà strada tra l’onirico e lo pseudo-politico.


Trappole per topi scattano all’unisono, proprio intorno ai nostri corpi millimetrati al suolo, quei germogli ritmici non danno tregua alla fisicità di mani casualmente di passaggio ed è un solo grugnito del cielo gelato a condensare la sofferenza contratta nelle piccole macchine perfette, la robotica studiata ha sorpreso le poetiche improvvisate dai venditori di contatti cutanei e nessun fiore è eretto a vanagloriarsi di resistenza, lo spavento che ci impregna le borse degli occhi sprigiona una languida accettazione, ci addormentiamo come masturbazioni di carrelli trainati verso un baratro e quando ascoltiamo le serrande sollevarsi siamo circondati da un verticale esercito di spighe di grano viola.





- Passeggiando in via senzanome





Via senzanome, raccoglitori ecologici disertati come cimiteri di paese sotto burrasca, l’unico ospite è un ridursi a pozzanghera tra rovi e pietre bianche.


Autobus paralleli al cartello di ingresso dei circa duecentometri, se entri qui non hai nulla di approssimativo per allontanarti facilmente e da qualunque parte tu provenga il bisogno di sole che porti stampato in fronte verrà a cadere imitando batuffoli di ovatta in camere di ferite irrisolvibili.


Cammino in questa via sconfitta a carte da qualche demone ubriaco, vedo la manutenzione dei portoni rastrellata in scarne occasioni di unghie su legno, il sottofondo musicale che mi accompagna durante la mimica dei piedi alternati è una marcia greve balzata sulle orecchie sporche di mendicanti sprovveduti di voce.


Nessuno a cui chiedere l’ora senza ricevere in risposta accenni di filosofie modellate da gengive di un rosso scombussolato nel suo furore, verità non dimostrate, cicatrizzate sotto i crepuscoli dei sorrisi.


Panchine disarcionate da un’essenza rettangolare, a fare da detriti intermittenti tra i palazzi e la zona di traffico sono soltanto accenni di pietra indecisa, frammenti di montagne rovesciatesi, barlumi di architettura masticati a priori da pesi martellanti o zone d’ombra a farsi deturpanti.


Coni di mutismo si rallegrano al tuo rapido proseguire di gambe ed occhi, bestie ingabbiate nella mancanza di speranza esultano alla novità del tuo orrore presuntuosamente mascherato, bastoni da dittatura casalinga sputano dalle finestre, binocoli impossibilitati a testimoniare agli astri l’inferno terreno.











- Majakovskij compra un divano dall’Ikea





Che spengano le luci, tutte. Un fiume incessante ha cozzato nel suo flusso di bambina egocentrica, schianto e silenzio da riempire con parole accurate. Le bocche verticalmente spalancate e orizzontalmente serrate di chi vorrebbe dire ma non ha nulla da, i pantaloni umili di uomini tornati da lavoro che si arrampicano sulla giunzione in grembo di mani miscredenti ma pacifiche, i gesti d’intesa di adolescenti in jeans e chiavi di motorini tenute tra le dita nervose, anelli metallici che attirano l’attenzione di chi non aspetta altro che un diversivo auditivo, qualcosa che non sia imbarazzo.


E io rido.


Fottetevi, lunatiche interpretazioni del dolore, baciamano puzzolenti addomesticati lungo corridoi dorati, scarpe su misura lucidate meticolosamente prima di, fottetevi, con i continenti marziani ai quali racconterete di quando e quanto eravate giovani, con le ringhiere sdentate a trattenervi da un suicidio, unghie masticate per assassinare il tempo sotto la fragranza ironica degli orologi alle pareti, proprio sopra le vostre teste tremanti, fottetevi, biciclette forate incapaci di rotolare lungo una discesa completamente priva di ostacoli, vi manca il senso del vuoto, la vostra moderata assenza è un’offesa alle libidini oziose delle tarantole curve negli angoli, menzogne proliferate a distinti saluti.


Che spengano le luci, occultino la rapidità dei miei denti sollevati insieme alle mascelle. Posso soffocare il mio ultimo suono, trasformando un riso in sonno acquisito.


E non c’è nulla di politico in tutto questo.





- Sogno di una bambina senza più





Da piccola guardavi il sole, assalita nell’emozione da quel prendersi gioco delle luci che si manifestava sopra di te, i labirinti di paese di colpo ridotti ad ovuli grattati giù da immense meteore di giallo-bianco.


Ti costruirono un piccolo rifugio di legno in prossimità del mulino, raccoglievi pietre lisce e candeggiavi la mensola della tua stanza con la sequenza irregolare di quelle forme, immaginavi il mare e le sue rabbie ed euforie di riviera, i piedi dei bagnanti ad importunare goffamente la sabbia, le gengive viola a scivolare dietro le colline, in lontananza, ad implodere nella notte.


La faccia più ovvia della sera si spiega sommessamente, imitando chiavi in postriboli occultati, il movimento rado che scalda l’isteria dell’imbarazzo non concede tremori di dita.


È un abbassare la testa per fossilizzarsi, privati di forza, nel cunicolo adombrato che costeggia quello stesso fiume, le pietre scorticate dalla mancanza di sole adesso imperversano teatralità grigie al cospetto del tuo corpo snodato di sorrisi, il tuo stanco alternare consapevolezze e carie nella rapidità delle dita si nutre di stracci di suoni, cortecce affumicate, corde inzuppate nell’olio.


Quando tiri fuori la testa non trovi più spazio per acconsentire con il respiro alla luce.





- August rain





Pioggia estiva, finita l’acqua restano pozzanghere mobili orientate nel pietriccio, fari a nuotare impacciati lungo la carreggiata, scie grigie a sfumare nella rapidità di un acceleratore innervosito.


Tabelloni stradali a godere di uno splendore improvviso, scendo le scale e arrivo poco oltre il cancello, mi fermo, mani nelle tasche dei jeans, le automobili passano di rado e l’alone acquoso delle loro ruote mi sfiora sempre a pochi centimetri, ho una sigaretta accesa tra le labbra, i gatti non si vedono.


I rami bagnati somigliano ad errori corretti sulle righe inchiostrate dei temi d’italiano.


I balconi affacciati ad est lasciano presagire presenze oniriche nelle stanze, quei rettangoli impregnati di famiglia ad invitare la fragranza piovana, finestre aperte, miracolo climatico, barlume di speranza nella morsa acida dell’afa.


Come se li sentissi respirare, sagome di poeti morti, creature svenate nel loro lugubre aspettare mattino sulle bozze, sventrati nel cervello fino al vuoto colossale dell’abbandono finale, che hanno ripetuto la parola morte fino a cento secondi prima di cedere ad un letto, fissando disperati e confusi le figure scarne ad accompagnare la loro fine.


Mi piace pensarli così, questi anziani che avranno mattina, questi bambini che chiederanno da bere, svegliati dal marrone di presenze psichiche, interrotti nell’alternare sbalzi rallentati del petto e fuoriuscita d’aria dalla bocca.


Proseguo, allontanandomi in direzione del centro della città, scarpe bagnate a ribollire filamenti sopra le suole, fronte smerigliata genitrice di gocce.





  • Se ti viene da




Effettivamente la concretizzazione delle parole sotto i tuoi occhi è ciò che di meglio può capitarti per il sorriso capriccioso della vanità, ma vedi che macchine ferme assorbono ansie lavorative e tu te ne stai a dipingere lettere e sembri soddisfatto, con quell’aria da ascensore a riposo, niente gente e dove ti domanderanno, dove ti permetteranno, dove non hai risposte sarai nei pressi della tranquillità e poi ci sono stati scrittori che hanno chiesto permessi cento, mille, permessi per entrare dalla porta principale, io farò esplodere una bomba atomica nel salotto delle pronunce perfette, signore dalle calze ricamate chiuderanno di getto le gambe le loro vagine ricucite a mano per il signor ***** della serata saranno alla portata dei maggiordomi repressi che fumano in attesa, le tette rugose dei cinquant’anni visti passare si poseranno su un tavolo freddo e rilucente a formare quattro spaventi in un solo riflesso e dalle stanze della gioventù gli orgasmi incollati agli angoli come ragni bavosi, uno spreco di novità del corpo, sudore a compromettere unghie serrate sulle schiene, questi uomini coppe e trofei, le loro conclusioni di sperma, ve la ricordate F. dagli occhi d’est, le mani piccole di diciannove anni a masturbare su un letto e ti faccio venire con la bocca, ve la ricordate, io sì e poi C. che muoveva la lingua ed eri lì che dicevi non smetterla, ti prego, stai inventando una poesia con la droga delle tue labbra e le lenzuola alle finestre sembravano religioni perforate, apocalisse, fuga d’amore, spavento, urlo liberatorio, end.


Voi che avete camminato storie di guerra e resistenza, voi, come potete andare a suonare campane, come potete permettere che il vento possa soffiare anche all’interno di cattedrali bianche, come fate a rinunciare alle esplosioni di piazze e prigioni casalinghe? I ventilatori sulle vostre mensole puzzano di pelle la pelle che non avete mai bagnato nel fango le pupille di chi è abituato al buio sorridono di piccolezza quando un raggio stupido interrompe la nenia delle ombre, siamo gatti senza egoismo naturale, ci accontentiamo di vedere altri che vogliano, che desiderino attraverso noi, i piedi imbronciati nelle dita fredde ci ricordano un passato a metà strada tra il cristianesimo e la malattia, da quanti anni non prepari un piatto di pasta sorridendo e come fai a scrivere poesie d’amore se ti viene da piangere subito dopo il parto, con quale macchina desideri schiantarti sul primo palo se acceleri di rossore appena ti fai scoprire con mugugni ambigui dal tuo bagno e nessuno sa se stai scrivendo lettere d’addio o cosa? Le bellissime visioni delle finestre io le farò rotolare lungo scale, darò loro la sola possibilità di nascondersi per vergogna, questa mina vagante non è una penna ma un respiro stranito e tutto questo, voi, tutto questo lo chiamate per nome?





- Candele di vetro a spegnersi dalle mie dita





Dovrei iniziare a prepararmi, sto per partire, scordatevi che vi parli della mia direzione, vi ho in pugno, siete miei, boom. Non portatemi i vostri libri di poesie.


Volete che vi parli di qualcosa, vi racconterò una storia di poche ore, accendo una candela di vetro e sono da voi, immaginatemi con un bicchiere ed una mezza sigaretta accesa. E poi i tasti, questi bastardi che mi succhiano l’anima.


Roma, vi dirò soltanto questo, cavalli con tubi di scappamento e isteria della mattina lavorativa, dalla stazione all’albergo, le mie due ore circa non sono che racconti spezzettati, provavo a fissarla negli occhi e lei portava via l’attenzione dalla sua risposta visiva, non per sconfitta, vedeva dentro.


Sole come una rapina a mano armata a tenere a bada ostaggi - c’è un continente intero che suda, ecco l’immagine fissa, prenotatemi un’altra candela, sarà una questione lunga.


Cose che dovranno morire, moriranno presto imitando docce invernali alle sette e venti di mattina, brrr accumulato lungo lo specchio, pelle d’oca, asciugamano, in fretta, verso i vestiti e il dentifricio.


Non avete presente, sono cose che non si memorizzano, per questo, quella dolcezza quasi nascosta, non pronunciata, bambina vestita da donna, i seni sul mio viso mi spostavano sospiri, tra me e lei questo benedetto spettro cancerogeno, oh sì, chiamatelo alcol, bevetene una quantità industriale e presentatevi anche voi, un giorno, di fronte al suo corpo, ditele che l’aspettate mentre va un secondo in bagno. Preparatevi a morire, se ci siete.


Incapace di assecondare quella dolcezza, tranne per la questione dei baci, in quel caso era un istinto, poi arreso e immobile, solo le sue labbra a scendere dal viso verso il petto, nel mio zaino una bottiglia compressa e centinaia di buchi vuoti già riempiti.


Provateci voi.


Roma, semafori ed edicole, rotonde soppesate dal vapore umano strizzato e poi gettato nel mezzo, gente come strofinacci, piedi su piedi, cintura di sicurezza ed occhio sull’orologio.


Sarà che non c’è nulla di cui essere splendenti, come sere incespicanti d’autunno che non sanno di perforare occhi anziani, sarà che in certe stanze ad ore si ascoltano parole false o che ne so, chiamatemi come volete e state a guardare come non spiego nulla ai fiumi, ho montagne sfilacciate nelle mani e lei che da Roma non è mai tornata, non importa il nome di una città quando la lontananza è un tasto schiacciato, irrimediabile registrazione e adesso zittisci quel pulsante che ti rende clinicamente vivo.


La struttura di questa musica malinconica che si presenta al cospetto della stanza è un cono mangiucchiato sui bordi, nulla che rimanga in superficie e microfontane in stile pareti perforate, la clessidra scarica sabbia con la rabbia a disposizione del tempo, fisso granelli generosamente bianchi come a testimoniare la purezza, non serve nessuna parola di conforto a questo accanimento dolce di strumenti sincronizzati, ascolto e ripenso a lei, lingua e byby, sollevandole gli occhiali sulla fronte prima di scendere dalla macchina, quello che dicono gli angeli è carta da zucchero sciolta sotto un concerto di grandine, non ho mai imparato a sigillare i momenti, restituisco al mittente, mangio dopo il crepuscolo delle zanzare estive, mi sorreggo ad un filo elettrico e la scossa mi chiude i pugni, sospeso in aria, sono la considerazione errata di tutti i politici, l’errore di calcolo, la mandria di bufali dispersi con un pastore piangente su una pietra, fottuto, amico, byby anche for you, non comprate mai candele di cera se non sapete scrivere al buio. Tenete conto che il vento c’è, sempre e comunque.
 
Capiap.tolo III









(è quasi finito 'sto strazio, promesso, a settembre vado in Islanda e pace)




- Questi binari morti





Notte sfinita, rombo di macchina esagerato sul freddo del metallo a terra, cicche di sigarette souvenir riciclati, bagni di folla invisibile ad intristire la solidità delle panchine.


Zero caffè, pancia scarna non lo dà a vedere, scritte metropolitane sviluppano giacimenti di petrolio privi di voce, il mio ritardo una stampa scolorita, fame di accumulo di motori.


Non mi ammirare per quello che scrivo, sono folle su un molo disertato dai gabbiani, ci sono ma non posso esserci, carne sotto le ascelle, spiriti piagnucolosi negli armadi, sole non venire, controllore donna sui quaranta passeggia con lo sguardo a terra, concentrazione, bassa di statura, belle gambe allineate da calzoni, tutti dormono, tutti si svegliano, non c’è un solo essere umano nel raggio di venti generazioni e i miei piedi iniziano a chiedere spazio alle scarpe, no, non sono cresciuto in una notte, non ancora, mai, è tutto impossibile, vieni a sussurrarmi la tua capacità in un orecchio sono qui per questo, sto imbrogliando le carte.


Mia solitudine tuo frastuono tra corpi sconosciuti, questo maledetto treno che non si allontana, mi sto dimenticando come si pongono le domande e ho troppa fretta per non marciare passi osceni fottendomene del sangue di chi procede a rilento, arriverò lì, proprio da dove sono partito, con qualche slogatura in più e niente cervello.





Ogni volta che viaggio mi sento raggiunto, la verginità del partire deruba rughe d’esperienza al suono secco delle porte sbattute nel saluto rabbioso.


Svenuto e vivo, due sofferenze in un corpo solidificato ad un sedile, compagni di biglietto, sconosciuti alfabeti tra neve e tabelloni virtuali, condividono di tacito accordo la catalessi fischiata attraverso un regime di cielo albeggiante, stanco di contatto con la natura e panorami gratuiti, sono due fogli di attesa e questa stupida macchina non si decide a farcela, abbiamo un ritardo di, chi bestemmierà per noi, non posso emettere suoni, tramortito da una notte bianca, aspetto.





Il lavoro muove il mondo, che tristezza. Facce, facce, facce. Centinaia di face al minuto, impossibile stare all’aperto se l’aperto sono loro. Ti guardano, ti danno un voto, spostano lo sguardo. Alla prossima vita baby. Stanco, mi si chiudono gli occhi, ho la calligrafia di un bambino disordinato, faccio segni strani e sporchi sul foglio, impiastro.





Tutti fermi, macchinista blatera con un fischietto d’argento ed è davvero tempo di riempire borse, farle esplodere di nullità e lasciarle aride di programmi, dita curate, mani spadaccine, eccola che legge con uno snobismo fiacco, assunto dall’espressione, che tempi per le chiacchiere da corridoio, generale inverno tace, sembra sconfitto, l’anello della ragazza un patto obbligato.





- Non fermare le immagini





Assenzio azzurro, baltico confuso, le ore bevono acqua cristallizzata da bambini scalzi seduti su pietre grandi come i loro corpi, baci dai balconi per messaggi di pace in elmo e fucile, rocambolesco palcoscenico sbronzo a mormorare prossimi appuntamenti, trionfo della ragione, facce incollate al muro, profonda anestesia di sorrisi e sono qui a lucidare le mie pareti senza averle degnate di uno sguardo di polvere, paura del buio, decima sigaretta, alzo il volto al nulla e trovo la mia dignitosa performance divinatoria che mi chiede il conto per il disturbo, alieno, esportato su pianeta di stupidi, esempio da non seguire, diamanti venduti come ***** nel paradiso delle pattumiere, non musica ad inneggiare le dicotomie dell’aria ma campane pasticcio di suoni umili, cavallo perdente costretto al sorriso, tempesta di sabbia e luce, eterna luce rossa, spinosa, catrame sanguinante, gabbia inclinata per la liberazione di alveari incrostati su sbarre.





- Dark’s Jogging





Canto di sirene snocciolato lungo asfalto tremante, due di pomeriggio, vapore verde nei pressi di catene di campi coltivati, ginocchia trascinate lungo chilometri imprecisi, devo fermarmi, lo chiede questo corpo.





- E se le cose non si muovessero?





Il sistema nervoso dei mobili manda segnali di sopportazione in direzione di orme continue di fango, lacrime non sgorgate, rampicanti ad annerire zone erogene dei mattoni, biascicano soluzioni di forno a microonde intasato di fumo, mosche tratteggiate nel vuoto corrompono tende respiranti ad impollinarsi di dimenticanza, le case vuote d’estate si rilassano verso le sette di sera, eco di verdure riscaldate e panni stesi a gocciolare sul pietriccio dei cortili, pallacanestro tra balconi e cellulari mantellanti cuore in gola, tutti gli “arriverò presto” strappati ai binari di arrivo delle stazioni a minacciare le corse alla fiducia affettiva con un suono di bustasorpresa spalancata.


E se tu mi parli di libertà io ti rispondo panini al prosciutto, ché almeno si mangiano, soddisfiamo la nostra fame serpentina e queste corse al tempo che non ci danno spazio fino a quando non le facciamo fuori, tutte, il mondo non ha perimetro e i pochi giorni che restano sono sotto una campana di vetro, loschi presagi di speranza, se le cose non si muovessero il mio respiro sarebbe un pinguino rosso o un’anarchia disegnata sui muri, le cose che non esistono fanno sempre un buon effetto, ho acceso una candela per guardarmi allo specchio senza luce e quello che ho visto era un boomerang incazzato, se ti chiedi quanti metri faccia ogni oggetto della tua stanza ti risponderai che i muscoli più resistenti sono quelli delle materialità inciampate, rotte, seminutili, da usare come pattumiera artistica o balorda a seconda del chi o del come.


Tosse di fiume, torrenziale splash disarmante panoramiche, gente rotola giù dai massi per precipitare dove poco prima gli occhi desideravano semplicemente anticalore, freschezza d’animo lanciata in bocca all’ansia afosa delle differenze tra il dire e il fare.





- L’oralità delle cose non viste





Punto esclamativo, lentissimo assistere a cioccolata bollente che cola sui ghiacciai, meduse spettinate nell’acqua e nel frattempo stai lì e nuoti, verso un sole già tramontato, spiaggia assediata da ombrelloni chiusi, febbraio inserito in un post-meriggio estivo, credimi, è possibile tremare anche quando.


Avvicini la tua voglia allargata al mio mutismo, sguardo da vino e lingua tumultuosa dietro i denti, abbracciami come se fossimo ancora quelli che si scrivevano lettere d’amore, non mi chiedevi perché e se c’era un corridoio per smuovere forza io facevo no con la testa, con i falsi bagni di folla, quello che restava era sempre e solo una negazione dei ventagli quando le fronti arrossiscono.


Bastarda notte isterica, ballerina minorenne, rocambolesca azione di guerra, lapide infranta, i tuoi liquidi seminali aggrediscono mancanze di carezze e bastoni, dalle serrande viaggiano ad intermittenza vagiti mimetizzati in radio accese, c’è chi predica il giusto e chi soffoca tra cuscini, porte d’albergo, spartane, cinematografiche, fissate per periodi interminabili da esattori della nullafacenza.


Sono venuto a prendere una follia e il mio zaino si è strappato, ho accumulato roba da gettare eppure il corrimano delle scale mobili ha sempre condiviso la mia assenza di attenzione, quando sono sceso verso di te c’erano alieni in giacca e lavoro che si informavano sulla prossima rivoluzione, il pascolo annoiato si riversa nel burrone e siamo qui a cantarci un “ci vogliamo bene” esattamente sobri e lunatici, con gli attributi delle scale rotte e i presupposti delle non idee, rosicchiati agli angoli, gelati inediti, penetrati alla sporgenza del seno per quel po’ di buono che dal nostro corpo, in questo nuotare antico di braccia armonizzate e scogli bianchi in lontananza, ci siamo arrivati sempre a piedi e certi posti non hanno parcheggi per sospirare la fatica.


Perdo il filo e tu diresti che è qui, sotto gli occhi, una bomba inesplosa, facciamo presto a crederci sconfitti, poi a derivare dalle disattenzioni sono generalmente pezzi d’occhio emarginati, vuoti di memoria, angoli improvvisati con tanto di pareti mobili, viviamo in una casa che dimentica serrature e orgogli di posto dove.


Ma se intrecci le dita, ti dirò, andiamo ancora insieme verso qualcosa, affogàti e liquidi, immobili granite da spaccare, amaro sulla tua lingua finalmente evasa.








- A.M.





Finestre scolpite su labbra di cielo, residui di mani d’artista ad intonare cantilene per il sonno delle macchine indirizzate verso pizzerie quasi sempre propriodietrol’angolo. Mascelle di nostalgia inspiegabile serrate sulla sola opportunità di un viaggio contemplato dai finestrini e secco negli specchi.


Ruote di scorta inginocchiate ai semafori, tabacchi assonnati, pirati del silenzio con un tostapane sottobraccio.


Nessuno stormo in volo, rare celebrazioni dei giardini, minuscoli passi verso la fragranza del panificio arrotondato nel palmo della mano e poi soffiato via lungo i pranzi estivi, crosta eccentrica, molliche, fianchi caldi.





  • P.M




Occhi destati dal riposo, scintilla flebile sul viso, di un rosabianco mordicchiato lentamente dal calore di un lavaggio sbagliato, capezzoli flosci della piccola civiltà rinchiusa in quattro mura.


Vernice azzurra nei gabinetti, fornelli bassi e nasi raffreddati, fango intrappolato tra manti erbosi paralleli tra loro, ora dell’abbandono definitivo dopo un sonno fresco di finestre semichiuse.


Le prove d’orchestra per la musica di mezzogiorno sono inclinate da una parte all’altra della pianura, gusci di nuvole a rispecchiarsi di un bianco monotono sulla fiaccola nera spalmata in orizzontale tra l’asfalto e il gesso incancellabile dei pedoni, me ne sto seduto con la penna in mano e osservo i miei capelli sul pavimento, obesi di disincanto, lunghi un pomeriggio d’ospedale, di un colore ricavato dal bacio inedito di calze bagnate e dita di sesso.








- Impressioni in quadrilatero





Candore massaggiato stancamente sulle schiene nude grattugiate da lenzuola domenicali, bagliore tiepido, sortilegio estivo imbrattato tra capelli sciolti sul cuscino.


Radiopomodoro sintonizzata al centro del tavolo, videocassette in crisi d’astinenza a fare mobilia ricamata in arcobalenico, basilico sventolato in prossimità del davanzale, foglie ruvide senza vene.


Fata bendata, rosso di peccato penetrato nei suoi occhi, paesi perdono sangue in terremoti perché non ho ancora stretto le sue braccia, né sfiorato con senso olfattivo il fruscio curioso dei suoi vestiti, non immagino il suo contatto differente da padelle imbestialite d’olio, eppure in quei frammenti realizzo pelle d’alluminio, presunzione resa cicatrice, trampolino senza molla, piscina assetata.


Porte sbattute, partenze affrettate, la dialettica di questo pensiero è un quadro dipinto a bruciature di sigaretta, i monologhi della mia dispersione non concludono, non conoscono l’ortografia di un punto, la immagino in una tenda di campeggio larga, immensa, le sue dita a muoversi con insicurezza d’asilo allungando fili pendenti, grotta di tela a custodirla, sperma di demonio a pioverle, cuccioli di cane dagli occhi densi di quasi lacrime ad ascoltare infreddoliti, è tutto nella tenda, non ci sono io, che scardino serrature di legumi e VHS, sveglia priva di batterie, inganno sulla mattina, stazione desolata, ruota esplosa, non sono lì e non sono il padre di questa penna da pulire, bottiglia svuotata, orizzontale senza liquido, continuo a pensare e fuggire, pensare e, acido lattico nella voglia.


E quest’uomo che mi guarda chiudere porte, che resta in attesa di un gesto, chiede ascolto con un bacio di libro, dirgli che non è, che la sua tenda non esiste e siamo lontani, fastidio di pietre su ferite aperte, interpreta grida di dolore come richieste di aiuto, continuo a chiudere porte e a fumare, non ho mai imparato a fare anelli con la bocca, se verrò da voi in ginocchio non apritemi.


Ora l’acqua del fiume sussurra parole di dopo-amore alle increspature di sassi affaticati.





- Smog opportuno e bussole errate





Elettricità palpabile nel buco intonato sopra case e piante, vene arzille, flash di inizio pioggia, capillari dorati improvvisati nell’incoscienza di un riparo mancato, sul viso nulla da confondere con l’acqua e i rintocchi della campana sono passi insicuri verso porte socchiuse e semilluminate.


Troppa natura, baci avanzati, fili di telefono srotolati giù per le scale, plastica annusa marmo scadente e io sto sfogliando carta senza degnarla del minimo interesse, anziani a raccontarsi specchiandosi nei vetri gocciolanti, hanno voci affaticate, non riesco a sopportare nessun suono simile, non reggo neanche la malizia involontaria della ragazzina che mi osserva salire le scale, rivolgo per un secondo il mio sguardo verso dove è seduta e ho la conferma del suo braccio teso, non posso portarti su con me perché nonostante tutto sto scendendo, non fidarti delle mie orme invisibili.


La chiave gira, il suo rumore un altoparlante incantato nelle viscere del cimitero diurno che è questa mandria allevata di capre affumicate, smog opportuno, inquinamento celeste, posacenere rovesciato su doccia balsamica.





  • Nessuno che possa chiamarmi per nome




Intenzionato al nulla, V. è sempre una foglia caduta di cui disconosco ormai anche l’albero, a piedi nudi bevo il fresco di quasi settembre ingaggiando una falsa ombra nell’ora pomeridiana.


Porto l’attenzione sui fogli riempiti a mano, manca l’immediatezza della macchina, eppure, senza bersaglio univoco a tenere insieme le parole, acquisisco la concretezza tra l’inchiostro masticato e l’effetto virtuale, sto scrivendo un libro solo e gli orologi danno importanza ai polsi, non ho ancora trovato un lavoro per mantenere intatta la mia sbadataggine, odio le collezioni perché danno un senso di autocontrollo, già c’è altro in fila per questo, troppe stelle che brillano trasformano la luce in fastidio.


Potrei passare la notte mettendo incinte le mie constatazioni da poco conto, oppure, oppure, oppure potrei incamminarmi per un posto dove, a prescindere dalla mia solitudine, nessuno che possa chiamarmi per nome, andarmene di qua e di là ritornando a pensare irrimediabilmente slegato.


Adesso che ci penso un giorno mi disse di essere dispiaciuta dalla mia mancanza di gelosia nei suoi confronti, bambini rossa, unghia da tenere tra le labbra, se ti scrivessi lettere potesti pensarmi barattolo rovesciato, quante gambe e teste ti ho sovrapposto mentre scopavo in alberghi ad una stella, questo tuo modo di imbrogliarmi ogni volta mi costa un bel po’, dovrei darmi al cattolicesimo, potrei saperti e basta, vanagloria di un tempo mai esistito, occhi di cartone inzuppati nella sovrapposizione moribonda dei mesi, vuoto nello stomaco, geloso della tua assenza vado a confortarmi con gli incidenti dell’umanità, datemi una guerra, malattia mentale, aria condizionata ad intasare vie d’uscita, non smettere di bere fissandomi.





- Se l’autunno sfogliasse





Vedi, io posso scrivere fino a domani, ho il presupposto indesiderato della fine, ogni giorno sono slegato su carta e mimando concentrazione non penso mai a questi petali che piovono sui nostri capelli raccolti.


Verrà l’autunno, sposerà passioni di ombrelloni, i bambini assaporeranno il rientro a scuola con la loro individualità invecchiata di un anno, voci meno insicure e calzoni diversi, corse frenate e specchi abituati a riflettere per interi minuti.


Verrà l’autunno, prenderà per mano anziani atleti delle sedie di bar, accompagnati in bagno dopo ore di filosofie calcistiche e politiche immortali, i cigolii delle sedie a dondolo torneranno a disegnare perimetri di stanze.


Verrà l’autunno, decrepito e malato, lago di ossa tremanti a seccarsi sotto il comporre noia dei calendari.





- Calpestando erba demoralizzata





Pietà nei confronti di queste allodole scimmiottanti campanili, austerità di ginocchia spirituali assorte in vespri reclutati al perdono delle mani strette a sospiri senza condominio; così si pone il terreno, costellazioni erbacee soffiate con forza, collo accarezzato con violenza, vivisezione accigliata di capelli in balia del vento.





- Oziando sul pavimento





Contesto liquido, pomata sciolta su pelle, rotolare vorticoso di fiato, palestra di sensi, lasciarsi guidare senza cinture di sicurezza, senza impatto, volto falsamente sfigurato da correnti non catalogate, rabbie moribonde, fuoco di labbra abbassato, gocce al culmine delle finestre sotto pupille dorate d’ozio.


Mi sveglio in questo letto abbracciato da faraoni dallo sguardo ferreo e vagiti delle ciglia a sbattere nel vuoto hanno lasciato polvere di bronzo sulle lenzuola.


Raggi dall’esterno, sono omicidi confessati alla plastica protettiva sulle lancette delle sveglie, percorro passi di insonnia verso il caffè e le fauci della civiltà attiva mi scuotono la testa, orgasmo di nicotina.


Posti che si tengono per mano, interi condomini uno sgradevole sorriso plurilingue, bordi delle strade pascolati da plastica suburbana, ammaccature perimetrate da ruggine sui seni sobri dei pali della luce, brindisi annoiato schiena contro schiena di cielo giorno.





- partenza-Ri





Treno in ritardo, quarantacinque minuti, quattro sigarette in meno, orari a puttane e non so quando arrivo da te e con quali labbra sarò a sorriderti, gambe nei calzoni, penso al tuo culo parallelo alla mia schiena, nessun senso di possesso e non so cosa potrò sgridare alle lenzuola di letto lanciato contro mattonelle, mi farò trascinare dai binari, non questi calpestati dal biglietto tariffa intera, divinità degli obiettivi raggiunti, non bevo da non so quanti giorni e se riesco ad immaginare qualcosa è proprio questa forma mammistica a contenere vino, eppure, ingenui poeti senza penna, eppure le stelle non mi dicono nulla e i campi verdi non sono letterature sulle quali riversare orrori di pareti devastate, dubbi di ceramica, glorie attese trascinando polsi su ruggine, lana sulle gambe, buste di spesa a fermentare cascate di contenitori, rotolare ingegnoso, sfericità dei rettangoli disangolati, scrittura che non ti bacia sul viso ed io non ti sto scrivendo nessuna storia d’amore, questa ragazza che legge disegni animati è seduta proprio davanti ai miei lacci sospesi in aria, davanti all’inchiostro sterile che non ha tratti, fiato a mancare, quattrocento chilometri dal quadro della notte appena trascorsa e continuo ad allontanarmi, angoscia distribuita è pozzanghera a schizzare fango negli occhi, non ne uscirò pulito, non vi sono entrato pulito, se avessi un orologio al polso lo getterei a terra, non per fermare il tempo, per illudermi di romperlo, ché non riprenda a decidere sudori o lamentale, ché non si prenda più la briga di scendere scale ammuffite schernendo la rapidità degli ascensori, la tragedia del treno giunto si compie mentre penso alla modernità delle cicale che scompigliano la destrezza sobria degli ultimi istanti di sonno.
 
Capiap.tolo III









(è quasi finito 'sto strazio, promesso, a settembre vado in Islanda e pace)




- Questi binari morti





Notte sfinita, rombo di macchina esagerato sul freddo del metallo a terra, cicche di sigarette souvenir riciclati, bagni di folla invisibile ad intristire la solidità delle panchine.


Zero caffè, pancia scarna non lo dà a vedere, scritte metropolitane sviluppano giacimenti di petrolio privi di voce, il mio ritardo una stampa scolorita, fame di accumulo di motori.


Non mi ammirare per quello che scrivo, sono folle su un molo disertato dai gabbiani, ci sono ma non posso esserci, carne sotto le ascelle, spiriti piagnucolosi negli armadi, sole non venire, controllore donna sui quaranta passeggia con lo sguardo a terra, concentrazione, bassa di statura, belle gambe allineate da calzoni, tutti dormono, tutti si svegliano, non c’è un solo essere umano nel raggio di venti generazioni e i miei piedi iniziano a chiedere spazio alle scarpe, no, non sono cresciuto in una notte, non ancora, mai, è tutto impossibile, vieni a sussurrarmi la tua capacità in un orecchio sono qui per questo, sto imbrogliando le carte.


Mia solitudine tuo frastuono tra corpi sconosciuti, questo maledetto treno che non si allontana, mi sto dimenticando come si pongono le domande e ho troppa fretta per non marciare passi osceni fottendomene del sangue di chi procede a rilento, arriverò lì, proprio da dove sono partito, con qualche slogatura in più e niente cervello.





Ogni volta che viaggio mi sento raggiunto, la verginità del partire deruba rughe d’esperienza al suono secco delle porte sbattute nel saluto rabbioso.


Svenuto e vivo, due sofferenze in un corpo solidificato ad un sedile, compagni di biglietto, sconosciuti alfabeti tra neve e tabelloni virtuali, condividono di tacito accordo la catalessi fischiata attraverso un regime di cielo albeggiante, stanco di contatto con la natura e panorami gratuiti, sono due fogli di attesa e questa stupida macchina non si decide a farcela, abbiamo un ritardo di, chi bestemmierà per noi, non posso emettere suoni, tramortito da una notte bianca, aspetto.





Il lavoro muove il mondo, che tristezza. Facce, facce, facce. Centinaia di face al minuto, impossibile stare all’aperto se l’aperto sono loro. Ti guardano, ti danno un voto, spostano lo sguardo. Alla prossima vita baby. Stanco, mi si chiudono gli occhi, ho la calligrafia di un bambino disordinato, faccio segni strani e sporchi sul foglio, impiastro.





Tutti fermi, macchinista blatera con un fischietto d’argento ed è davvero tempo di riempire borse, farle esplodere di nullità e lasciarle aride di programmi, dita curate, mani spadaccine, eccola che legge con uno snobismo fiacco, assunto dall’espressione, che tempi per le chiacchiere da corridoio, generale inverno tace, sembra sconfitto, l’anello della ragazza un patto obbligato.





- Non fermare le immagini





Assenzio azzurro, baltico confuso, le ore bevono acqua cristallizzata da bambini scalzi seduti su pietre grandi come i loro corpi, baci dai balconi per messaggi di pace in elmo e fucile, rocambolesco palcoscenico sbronzo a mormorare prossimi appuntamenti, trionfo della ragione, facce incollate al muro, profonda anestesia di sorrisi e sono qui a lucidare le mie pareti senza averle degnate di uno sguardo di polvere, paura del buio, decima sigaretta, alzo il volto al nulla e trovo la mia dignitosa performance divinatoria che mi chiede il conto per il disturbo, alieno, esportato su pianeta di stupidi, esempio da non seguire, diamanti venduti come ***** nel paradiso delle pattumiere, non musica ad inneggiare le dicotomie dell’aria ma campane pasticcio di suoni umili, cavallo perdente costretto al sorriso, tempesta di sabbia e luce, eterna luce rossa, spinosa, catrame sanguinante, gabbia inclinata per la liberazione di alveari incrostati su sbarre.





- Dark’s Jogging





Canto di sirene snocciolato lungo asfalto tremante, due di pomeriggio, vapore verde nei pressi di catene di campi coltivati, ginocchia trascinate lungo chilometri imprecisi, devo fermarmi, lo chiede questo corpo.





- E se le cose non si muovessero?





Il sistema nervoso dei mobili manda segnali di sopportazione in direzione di orme continue di fango, lacrime non sgorgate, rampicanti ad annerire zone erogene dei mattoni, biascicano soluzioni di forno a microonde intasato di fumo, mosche tratteggiate nel vuoto corrompono tende respiranti ad impollinarsi di dimenticanza, le case vuote d’estate si rilassano verso le sette di sera, eco di verdure riscaldate e panni stesi a gocciolare sul pietriccio dei cortili, pallacanestro tra balconi e cellulari mantellanti cuore in gola, tutti gli “arriverò presto” strappati ai binari di arrivo delle stazioni a minacciare le corse alla fiducia affettiva con un suono di bustasorpresa spalancata.


E se tu mi parli di libertà io ti rispondo panini al prosciutto, ché almeno si mangiano, soddisfiamo la nostra fame serpentina e queste corse al tempo che non ci danno spazio fino a quando non le facciamo fuori, tutte, il mondo non ha perimetro e i pochi giorni che restano sono sotto una campana di vetro, loschi presagi di speranza, se le cose non si muovessero il mio respiro sarebbe un pinguino rosso o un’anarchia disegnata sui muri, le cose che non esistono fanno sempre un buon effetto, ho acceso una candela per guardarmi allo specchio senza luce e quello che ho visto era un boomerang incazzato, se ti chiedi quanti metri faccia ogni oggetto della tua stanza ti risponderai che i muscoli più resistenti sono quelli delle materialità inciampate, rotte, seminutili, da usare come pattumiera artistica o balorda a seconda del chi o del come.


Tosse di fiume, torrenziale splash disarmante panoramiche, gente rotola giù dai massi per precipitare dove poco prima gli occhi desideravano semplicemente anticalore, freschezza d’animo lanciata in bocca all’ansia afosa delle differenze tra il dire e il fare.





- L’oralità delle cose non viste





Punto esclamativo, lentissimo assistere a cioccolata bollente che cola sui ghiacciai, meduse spettinate nell’acqua e nel frattempo stai lì e nuoti, verso un sole già tramontato, spiaggia assediata da ombrelloni chiusi, febbraio inserito in un post-meriggio estivo, credimi, è possibile tremare anche quando.


Avvicini la tua voglia allargata al mio mutismo, sguardo da vino e lingua tumultuosa dietro i denti, abbracciami come se fossimo ancora quelli che si scrivevano lettere d’amore, non mi chiedevi perché e se c’era un corridoio per smuovere forza io facevo no con la testa, con i falsi bagni di folla, quello che restava era sempre e solo una negazione dei ventagli quando le fronti arrossiscono.


Bastarda notte isterica, ballerina minorenne, rocambolesca azione di guerra, lapide infranta, i tuoi liquidi seminali aggrediscono mancanze di carezze e bastoni, dalle serrande viaggiano ad intermittenza vagiti mimetizzati in radio accese, c’è chi predica il giusto e chi soffoca tra cuscini, porte d’albergo, spartane, cinematografiche, fissate per periodi interminabili da esattori della nullafacenza.


Sono venuto a prendere una follia e il mio zaino si è strappato, ho accumulato roba da gettare eppure il corrimano delle scale mobili ha sempre condiviso la mia assenza di attenzione, quando sono sceso verso di te c’erano alieni in giacca e lavoro che si informavano sulla prossima rivoluzione, il pascolo annoiato si riversa nel burrone e siamo qui a cantarci un “ci vogliamo bene” esattamente sobri e lunatici, con gli attributi delle scale rotte e i presupposti delle non idee, rosicchiati agli angoli, gelati inediti, penetrati alla sporgenza del seno per quel po’ di buono che dal nostro corpo, in questo nuotare antico di braccia armonizzate e scogli bianchi in lontananza, ci siamo arrivati sempre a piedi e certi posti non hanno parcheggi per sospirare la fatica.


Perdo il filo e tu diresti che è qui, sotto gli occhi, una bomba inesplosa, facciamo presto a crederci sconfitti, poi a derivare dalle disattenzioni sono generalmente pezzi d’occhio emarginati, vuoti di memoria, angoli improvvisati con tanto di pareti mobili, viviamo in una casa che dimentica serrature e orgogli di posto dove.


Ma se intrecci le dita, ti dirò, andiamo ancora insieme verso qualcosa, affogàti e liquidi, immobili granite da spaccare, amaro sulla tua lingua finalmente evasa.








- A.M.





Finestre scolpite su labbra di cielo, residui di mani d’artista ad intonare cantilene per il sonno delle macchine indirizzate verso pizzerie quasi sempre propriodietrol’angolo. Mascelle di nostalgia inspiegabile serrate sulla sola opportunità di un viaggio contemplato dai finestrini e secco negli specchi.


Ruote di scorta inginocchiate ai semafori, tabacchi assonnati, pirati del silenzio con un tostapane sottobraccio.


Nessuno stormo in volo, rare celebrazioni dei giardini, minuscoli passi verso la fragranza del panificio arrotondato nel palmo della mano e poi soffiato via lungo i pranzi estivi, crosta eccentrica, molliche, fianchi caldi.





  • P.M




Occhi destati dal riposo, scintilla flebile sul viso, di un rosabianco mordicchiato lentamente dal calore di un lavaggio sbagliato, capezzoli flosci della piccola civiltà rinchiusa in quattro mura.


Vernice azzurra nei gabinetti, fornelli bassi e nasi raffreddati, fango intrappolato tra manti erbosi paralleli tra loro, ora dell’abbandono definitivo dopo un sonno fresco di finestre semichiuse.


Le prove d’orchestra per la musica di mezzogiorno sono inclinate da una parte all’altra della pianura, gusci di nuvole a rispecchiarsi di un bianco monotono sulla fiaccola nera spalmata in orizzontale tra l’asfalto e il gesso incancellabile dei pedoni, me ne sto seduto con la penna in mano e osservo i miei capelli sul pavimento, obesi di disincanto, lunghi un pomeriggio d’ospedale, di un colore ricavato dal bacio inedito di calze bagnate e dita di sesso.








- Impressioni in quadrilatero





Candore massaggiato stancamente sulle schiene nude grattugiate da lenzuola domenicali, bagliore tiepido, sortilegio estivo imbrattato tra capelli sciolti sul cuscino.


Radiopomodoro sintonizzata al centro del tavolo, videocassette in crisi d’astinenza a fare mobilia ricamata in arcobalenico, basilico sventolato in prossimità del davanzale, foglie ruvide senza vene.


Fata bendata, rosso di peccato penetrato nei suoi occhi, paesi perdono sangue in terremoti perché non ho ancora stretto le sue braccia, né sfiorato con senso olfattivo il fruscio curioso dei suoi vestiti, non immagino il suo contatto differente da padelle imbestialite d’olio, eppure in quei frammenti realizzo pelle d’alluminio, presunzione resa cicatrice, trampolino senza molla, piscina assetata.


Porte sbattute, partenze affrettate, la dialettica di questo pensiero è un quadro dipinto a bruciature di sigaretta, i monologhi della mia dispersione non concludono, non conoscono l’ortografia di un punto, la immagino in una tenda di campeggio larga, immensa, le sue dita a muoversi con insicurezza d’asilo allungando fili pendenti, grotta di tela a custodirla, sperma di demonio a pioverle, cuccioli di cane dagli occhi densi di quasi lacrime ad ascoltare infreddoliti, è tutto nella tenda, non ci sono io, che scardino serrature di legumi e VHS, sveglia priva di batterie, inganno sulla mattina, stazione desolata, ruota esplosa, non sono lì e non sono il padre di questa penna da pulire, bottiglia svuotata, orizzontale senza liquido, continuo a pensare e fuggire, pensare e, acido lattico nella voglia.


E quest’uomo che mi guarda chiudere porte, che resta in attesa di un gesto, chiede ascolto con un bacio di libro, dirgli che non è, che la sua tenda non esiste e siamo lontani, fastidio di pietre su ferite aperte, interpreta grida di dolore come richieste di aiuto, continuo a chiudere porte e a fumare, non ho mai imparato a fare anelli con la bocca, se verrò da voi in ginocchio non apritemi.


Ora l’acqua del fiume sussurra parole di dopo-amore alle increspature di sassi affaticati.





- Smog opportuno e bussole errate





Elettricità palpabile nel buco intonato sopra case e piante, vene arzille, flash di inizio pioggia, capillari dorati improvvisati nell’incoscienza di un riparo mancato, sul viso nulla da confondere con l’acqua e i rintocchi della campana sono passi insicuri verso porte socchiuse e semilluminate.


Troppa natura, baci avanzati, fili di telefono srotolati giù per le scale, plastica annusa marmo scadente e io sto sfogliando carta senza degnarla del minimo interesse, anziani a raccontarsi specchiandosi nei vetri gocciolanti, hanno voci affaticate, non riesco a sopportare nessun suono simile, non reggo neanche la malizia involontaria della ragazzina che mi osserva salire le scale, rivolgo per un secondo il mio sguardo verso dove è seduta e ho la conferma del suo braccio teso, non posso portarti su con me perché nonostante tutto sto scendendo, non fidarti delle mie orme invisibili.


La chiave gira, il suo rumore un altoparlante incantato nelle viscere del cimitero diurno che è questa mandria allevata di capre affumicate, smog opportuno, inquinamento celeste, posacenere rovesciato su doccia balsamica.





  • Nessuno che possa chiamarmi per nome




Intenzionato al nulla, V. è sempre una foglia caduta di cui disconosco ormai anche l’albero, a piedi nudi bevo il fresco di quasi settembre ingaggiando una falsa ombra nell’ora pomeridiana.


Porto l’attenzione sui fogli riempiti a mano, manca l’immediatezza della macchina, eppure, senza bersaglio univoco a tenere insieme le parole, acquisisco la concretezza tra l’inchiostro masticato e l’effetto virtuale, sto scrivendo un libro solo e gli orologi danno importanza ai polsi, non ho ancora trovato un lavoro per mantenere intatta la mia sbadataggine, odio le collezioni perché danno un senso di autocontrollo, già c’è altro in fila per questo, troppe stelle che brillano trasformano la luce in fastidio.


Potrei passare la notte mettendo incinte le mie constatazioni da poco conto, oppure, oppure, oppure potrei incamminarmi per un posto dove, a prescindere dalla mia solitudine, nessuno che possa chiamarmi per nome, andarmene di qua e di là ritornando a pensare irrimediabilmente slegato.


Adesso che ci penso un giorno mi disse di essere dispiaciuta dalla mia mancanza di gelosia nei suoi confronti, bambini rossa, unghia da tenere tra le labbra, se ti scrivessi lettere potesti pensarmi barattolo rovesciato, quante gambe e teste ti ho sovrapposto mentre scopavo in alberghi ad una stella, questo tuo modo di imbrogliarmi ogni volta mi costa un bel po’, dovrei darmi al cattolicesimo, potrei saperti e basta, vanagloria di un tempo mai esistito, occhi di cartone inzuppati nella sovrapposizione moribonda dei mesi, vuoto nello stomaco, geloso della tua assenza vado a confortarmi con gli incidenti dell’umanità, datemi una guerra, malattia mentale, aria condizionata ad intasare vie d’uscita, non smettere di bere fissandomi.





- Se l’autunno sfogliasse





Vedi, io posso scrivere fino a domani, ho il presupposto indesiderato della fine, ogni giorno sono slegato su carta e mimando concentrazione non penso mai a questi petali che piovono sui nostri capelli raccolti.


Verrà l’autunno, sposerà passioni di ombrelloni, i bambini assaporeranno il rientro a scuola con la loro individualità invecchiata di un anno, voci meno insicure e calzoni diversi, corse frenate e specchi abituati a riflettere per interi minuti.


Verrà l’autunno, prenderà per mano anziani atleti delle sedie di bar, accompagnati in bagno dopo ore di filosofie calcistiche e politiche immortali, i cigolii delle sedie a dondolo torneranno a disegnare perimetri di stanze.


Verrà l’autunno, decrepito e malato, lago di ossa tremanti a seccarsi sotto il comporre noia dei calendari.





- Calpestando erba demoralizzata





Pietà nei confronti di queste allodole scimmiottanti campanili, austerità di ginocchia spirituali assorte in vespri reclutati al perdono delle mani strette a sospiri senza condominio; così si pone il terreno, costellazioni erbacee soffiate con forza, collo accarezzato con violenza, vivisezione accigliata di capelli in balia del vento.





- Oziando sul pavimento





Contesto liquido, pomata sciolta su pelle, rotolare vorticoso di fiato, palestra di sensi, lasciarsi guidare senza cinture di sicurezza, senza impatto, volto falsamente sfigurato da correnti non catalogate, rabbie moribonde, fuoco di labbra abbassato, gocce al culmine delle finestre sotto pupille dorate d’ozio.


Mi sveglio in questo letto abbracciato da faraoni dallo sguardo ferreo e vagiti delle ciglia a sbattere nel vuoto hanno lasciato polvere di bronzo sulle lenzuola.


Raggi dall’esterno, sono omicidi confessati alla plastica protettiva sulle lancette delle sveglie, percorro passi di insonnia verso il caffè e le fauci della civiltà attiva mi scuotono la testa, orgasmo di nicotina.


Posti che si tengono per mano, interi condomini uno sgradevole sorriso plurilingue, bordi delle strade pascolati da plastica suburbana, ammaccature perimetrate da ruggine sui seni sobri dei pali della luce, brindisi annoiato schiena contro schiena di cielo giorno.





- partenza-Ri





Treno in ritardo, quarantacinque minuti, quattro sigarette in meno, orari a puttane e non so quando arrivo da te e con quali labbra sarò a sorriderti, gambe nei calzoni, penso al tuo culo parallelo alla mia schiena, nessun senso di possesso e non so cosa potrò sgridare alle lenzuola di letto lanciato contro mattonelle, mi farò trascinare dai binari, non questi calpestati dal biglietto tariffa intera, divinità degli obiettivi raggiunti, non bevo da non so quanti giorni e se riesco ad immaginare qualcosa è proprio questa forma mammistica a contenere vino, eppure, ingenui poeti senza penna, eppure le stelle non mi dicono nulla e i campi verdi non sono letterature sulle quali riversare orrori di pareti devastate, dubbi di ceramica, glorie attese trascinando polsi su ruggine, lana sulle gambe, buste di spesa a fermentare cascate di contenitori, rotolare ingegnoso, sfericità dei rettangoli disangolati, scrittura che non ti bacia sul viso ed io non ti sto scrivendo nessuna storia d’amore, questa ragazza che legge disegni animati è seduta proprio davanti ai miei lacci sospesi in aria, davanti all’inchiostro sterile che non ha tratti, fiato a mancare, quattrocento chilometri dal quadro della notte appena trascorsa e continuo ad allontanarmi, angoscia distribuita è pozzanghera a schizzare fango negli occhi, non ne uscirò pulito, non vi sono entrato pulito, se avessi un orologio al polso lo getterei a terra, non per fermare il tempo, per illudermi di romperlo, ché non riprenda a decidere sudori o lamentale, ché non si prenda più la briga di scendere scale ammuffite schernendo la rapidità degli ascensori, la tragedia del treno giunto si compie mentre penso alla modernità delle cicale che scompigliano la destrezza sobria degli ultimi istanti di sonno.

Ambrose, non te ne andare oppure da quella Thule,
Non più ultima, manda qui ancora i tuoi lamenti:
Lo strazio è solo tuo; nostri gli smarrimenti.
Comunque, a quanto vedo, non viaggi come un baule.
 
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