Werckmeister Harmonies







Capitolo IV














- Il titolo è una presa di coscienza





I titoli, ah, i titoli, ci vogliono una quarantina d’anni per un titolo passabile, te lo appunti alla maglia e se non brilla come una spilla d’oro cerchi una sistemazione comunque decente, venti per scriverlo e gli altri per non cancellarlo, poi ti metti un qualcosa addosso e i capelli e le spalle, tutto un concerto mosso a volontà, seta che possa proteggerti dall’anonimo interesse delle scale a gradini saltati per la fretta, con questa frase mozzata in testa, vai gridando il tuo titolo e se nessuno lo ascolta sniffi ottimismo dalla loro incapacità, queste musiche devastatrici non hanno mai chiesto strumenti e a dare ritmo è proprio ciò che ti accompagna posandoti ad un domani tenero, senza ossa, masticabile. Ingoiabile.


Digerire i chiasmi dei cigolii negli appartamenti, conoscere i lati rozzi delle mani che dipingono falene, barcollare su una piattaforma di irresistibile lucentezza, mai pronto a tavola eppure da tempo la fame è passata senza troppe questioni, deve esserci qualcosa di saziabile alla portata delle maniglie rotte e dei sessi portati all’estremo in quelle notti dove non c’è altra possibilità, sulle panchine eserciti di cavalli impazziti si abbracciano in una corsa all’ultima spinta, come una promessa mantenuta al proprio orgoglio, legno che cede e sangue da poco conto.


Tutto ciò che non ha un titolo possiede punti di quasi fine, stai lì a chiederti se è il caso di voltare pagina, la paura di uno spazio bianco è il tuo non poter camminare senza mani a reggerti per le spalle, gli aquiloni lasciati in sollevamento verso chissà cosa sono sempre di colori sgargianti, mai che ne abbia visto uno intinto di paura, i buchi di vecchiaia sono constatazioni di esperienza e i filamenti penzolanti rendono poetico il gesto sfumato nel bianco d’aria, eppure nessuno che corra con la bocca rivolta verso il basso, il titolo dov’è? Non c’è, stiamo cercando qualcosa di non tratteggiato, i corridoi degli edifici si nutrono di ragnatele cangianti e le scrivanie episcopali di uomini intenti all’estetismo dell’architettura di salvadanai senza fessure si danno pace assistendo a gesti di insicurezza poco prima dei cappi al collo, cosa importa dei diseredati dalle panchine che fumano incenso osceno, i titoli delle gambe intraviste dagli sportelli delle automobili sono illuminati di erezione, cosa importa dei lamenti dei gatti che sono capolavori del suono.





- Con le caviglie riemerse dall’acqua





Settembre, antenne in ricezione, segni di sole sul viso e siamo giunti anche quest’anno ai preparativi per qualcosa che e qualcosa come, bagaglio musicale arricchito, i piedi di chi non corre più sugli asfalti ci guardano dalle cornici dicendoci sorrisi e insinuando provocazioni antidepressive, pianisti privi di dita intercettano simmetrie di note spezzate e guardarli destreggiarsi sul legno antico che imbalsama gli appartamenti è segno di fiducia malcelata nelle radici.


Poi settembre e i preventivi, cambi di armadi e scotch intorno ai quaderni, pastelli posati su carta accarezzando righe invisibili, ogni andare a capo è un obiettivo da perseguire.


Non c’è solitudine nelle passeggiate pomeridiane di rughe e bastoni, i loro tornei di bocce raccontano aneddoti custoditi in bestemmie di tiri sbagliati, nessuno osserva la passione cinica di una briscola amaranto su nubi terrene che sono tavoli che hanno fatto e dato storia.


Decine di Alcatraz impercettibili compongono il mosaico delle mattine adolescenziali, ultime birre tra sabbia e jeans, ombrelloni semiaddormentati contemplano la brezza nostalgica che avverte naviganti e studenti, nel raggio di poche decine di semafori tutti gli incroci sono indebitati di passaggi di motori, nessun traffico di riviera, caffè spettinati approfittano della mancanza di vita per dedicarsi all’ozio di un breve sporco di bancone che nessuno noterà, capelli plasmati da aromi esotici adombrano occhi ancora giovani.





- Ma certo che è permesso





Per dimostrarmi pienezza d’animo si presenta qui, sotto il mio portone, intermezzo tra ruote di biciclette appena gonfiate, palcoscenici millimetrici di insetti non identificati ad assassinare fori di cantine e plastica non riciclabile, si presenta con questa tipa con la coda di capelli intrappolata in un celeste di fiocco di nascita e gli occhi seriosi, già annuso aria di guai tenuti nascosti, scontentezza repressa, cose che non vengono mai da sole. Mi piego sul suo “chi si rivede”, sono una conchiglia che consuma benzina viola, fustino di detersivo riempito di vetri rotti, passamontagna sotto il sole, ha scelto il momento peggiore per constatare la vanagloria di un ricordo di banchi di superiori, ovvero mentre sto portando avanti il libro.


Ha sentito che sono partito e poi tornato, che tutto accade, che è bello ritrovarsi e tanti altri che allineati e di colpo la mia stanza è un’anticaglia di “ah sì”, gli chiedo del lavoro e mi risponde che va tutto bene, qualcosa sui tubi di scappamento, ho l’attenzione rivolta all’orologio e non c’è tempo da perdere, sì, stavo scrivendo, sì, lo faccio ancora, no, nessuna novità importante e se ti riferisci al sogno di piccolo Jack non ti resta altra possibilità se non quella del ricordo del ricordo, proprio come sfogliare album di fotografie e dire “ah sì, quante potenzialità nel sogno allora”.


Nel frattempo hanno messo su una mitragliatrice pacifica che ammazza cemento e tutto il rumore dell’occidente si fa serpente a dondolare nel sole, quieto interrompere un libro, pattini a rotelle nelle orecchie, lui continua a raccontarsi facendomi parte della grande evoluzione post-adolescenziale e penso alle chiacchiere da bambino che non ho fatto a tempo a concludere, volevo sapere colori di caramelle e mi hanno messo in bocca qualsiasi cosa, spaghetti allo zucchero e cioccolata sciolta, dicendomi perché no.


La mia gatta si sta pulendo il culo sulla scrivania, la guardo, la ragazza la guarda, il mio amico la guarda. Ecco una che non se ne frega un *****, se ne sta lì a pulirsi il culo di fronte agli estranei e figurarsi se si pone questioni, non la smette mica, mi viene da ridere al pensiero di un uomo che inizia a farsi un bidet in mezzo alla stanza, devo comprare qualcosa ma ho dimenticato cosa, la gatta si allontana verso l’ingresso.


Conversatore inutile, mi posa una mano sulla spalla e chiede quando sarà la prossima volta che, rinuncio a sorridere di cinismo e il mio sguardo è quello delle panchine punzecchiate da pini di parco, certe volte non sai se sono addobbi o coercizioni della natura, la casualità della cosa ti sfugge, non la reggi, non ne fai un dramma, certo, ma è pur sempre inspiegabile e se vuoi puoi prendertela con il vento, con gli amici che tornano per rassicurarti del fatto che sono vivi, con le pernacchie del cielo che non fa mai sul serio pioggia, settembre è un pinguino in attesa di salto nell’acqua ghiacciata e sul baratro galleggia di idee di polistirolo, settembre mi fa pensare anche a maestre di scuola con permanenti del primo giorno installate sulla testa come assegni in cornice, scrivo periodi lunghi perché non mi piace fermarmi, provate a mettere punti mentre scopate, prima dell’orgasmo, e ditemi se è una bella sensazione - se vi piace pensarlo, le virgole possono essere carezze.





- Dopopranzo





14.07 caffè nel bicchiere verde, come un porco borghese, sigaretta parallela al posacenere e gli occhi di Ernesto dipinti sul salvadanaio, dalla cucina ticchettii di scopa infilata negli spazi stretti di sedie e gambe di tavolo, nessuno sa se il battito di mani proveniente dal palazzo di fronte è di esultanza per la fine o cosa. Ma esistono anche i fischi, ad averci le labbra in grado di arricciarsi ed emettere suono senza parole.


Pasolini addormentato nell’acqua, amante con dieci nomi nella pelle, le crisi di panico dei telefoni progrediscono assaltando furgoni portavalori che sono piante di basilico innaffiate a metà spazio tra sole ed ombra, nessuno che fermi queste macchine fiorite nei giardini di cortile e lanciate a fionda sulle direzioni, pali della luce scudi alzati.





- Stanza zingara





Prenotiamo in questo albergo, una doppia e carta d’identità, i signori pagano in anticipo? Ecco a lei - quando ti chiamano signore ti viene spontaneo tirare fuori la banconota, questi stronzi puntano tutto sull’educazione, hanno scale e manifesti, ascensori, chiavi, battiscopa nelle stanze e tendine alle finestre educate.


Ho voglia di rinchiudermi nella stanza e poi nel letto, datemi un labirinto e non inventate uomini capaci di seguire il mio stesso percorso zigzagato, convertite le proprietà dello spazio e create per loro altre stanze, altre lenzuola pulite, altri armadi di plastica, bagni putridi di inutilità e serrature.


Entriamo, chiudo a chiave, il pomeriggio inventa spazi temporali silenziosi addomesticando il catrame cittadino, so del suo sguardo sulla mia schiena e sorrido senza voltarmi, se scorge sul mio profilo la fossetta ricamata sulla guancia è finita.


Le sue dita arrivano meditate ai fianchi, si calpestano tra di loro avanzando snelle sulle unghie-tacchi, un graffio ampliato a mimare l’avvitamento di un chiodo, la sento.





- Se hai proprio scelto di





Se mi segui sarà mal di testa, girotondo d’asilo, mani nelle mani e vortice di corpo gracile schiantato sul manto erboso, pensieri sovrapposti, piramidali, resi avvolgibile e sottomessi all’incoerenza di un intreccio emozionale, sarà balbuzie nella dialettica perfetta.


Se provi davvero a tentare il percorso di queste parole, non hai scampo, finisci brillante incastonato tra collana e seno, respiro a fatica, sudore moltiplicato in prossimità delle prime rughe, capelli bianchi ad incrementare il passo zelante delle stagioni e non farti venire una qualsiasi idea, ventilatore raccapricciato in un angolo invernale, scarpe senza tacco in tentativo di ritmo musicale, liquido zuccherato senza possibilità di abnegazione nei confronti di lenti a contatto da sterilizzare.


Non credere che le pause dei caselli di autostrada forniti dal pomeriggio possano redimerti dall’angoscia colorata che intona vertebre ed ossa in questi fogli, se cerchi la perfezione prendi pure la strada dell’ultima pagina, se cerchi tutto il resto hai sotto gli occhi il piagnisteo di candele senza più cera, la serenità molliccia di un pene stremato, dolcezza di massaggi sui dolori e se non si tratta di amicizia rimane un gesto per il tuo orgoglio ferito, ricordati delle labbra che ti hanno incitato a sorridere.


Sei ancora qui a stuzzicare i denti di queste gengive malsane che hanno decretato carta e penna, fiducia di un guerriero isterico mai rassegnato alla bandiera forata, morte rimandata, demonio bianco e alato, se spingi il formicolio delle sillabe arriverai a grattarti il petto e ancora più in fondo, dove non carne, dove non organi.


Cuore grandinato di sobbalzi, nocche delle mani divenute di un viola sospiro erroneamente prolungato, lampadario deceduto su piastrelle vetrate, se leggi senti un governo assaltato che si rivolge al popolo in uno sciame di vendette incompiute, nessuna pietà per le tue labbra socchiuse a centimetri non calcolati dalla pagina, una catena di dogmi sinuosi srotola fisicità tra la saliva dondolante e il bianco strappabile annerito di inchiostro.





- Ciò che non compare nei dizionari





Che occhi lievi, elettricità lubrificata attraverso antenne e so che mi scrive a mezzanotte, che ha una mattina di stanze deserte, mani che si impregnano di tastiera e lo scrivere di quegli istanti è l’alcol del giorno a venire.


Mi sono svegliato con un mal di testa di città, il viaggio in treno mi ha tenuto stretto alle rotaie anche nel momento in cui ho varcato la porta di casa e sono rientrato, pensando alle sue labbra che dicevano “sto bene” ed è così difficile ricucire il vestito labile del tempo, non ne discuto neanche, come pensiero mi infastidisce le gambe ed i piedi, urticante necessità di prendere una finestra e sbatterla sugli sguardi di chi cerca di penetrare.


Il cobalto sottolineato dalla pupilla si accascia appassionato di parole non dette, il suolo accoglie verniciature prese in prestito da soffitti grondanti, la via di mezzo tra parole pronunciate e capite è un abbecedario della pelle d’oca, crisantemi sopra le ciglia si rizzano in un pianto di gioia da girasoli festeggiati di altro bagliore.


Il citazionismo dei posti impossibili si rende bambino d’asilo quando ad allargare gambe è la spinta di ciò che non compare nei dizionari.





- Flash





Questo mondo non si cambia, non esistono rivoluzionari, gli arcobaleni finiscono a punta sciolta e le mansarde servono a chi non vuole festeggiare in piazza, mi sono vestito da dubbio per specchiarmi nelle coscienze dei disertori della libertà e una volta annullata la stessa dalla mia vita ho giocato a carte con cavalli perdenti, sconfiggendo la loro scarsa stima nichlistica.





- Tre di mattina





Tre di mattina, quello che aspettavi non è arrivato, non c’è un sole a tramontare e ti vendo sogni e ferite sui gomiti, disprezza la verità, disprezza il dubbio, non disprezzare il sonno involontario.


Adesso grappa, scopo con il vento, voi vi chiedete perché mai qui a fumare e bere scrivendo senza fissare il monitor e tutte le fiabe che non ho mai raccontato stanno volteggiando timide sui capelli dei miei armadi rotti, ma è tempo per non avere tempo e la fretta si asciuga sangue dalla bocca, i suoi lividi sono gare poetiche perse in partenza.


Le dimensioni dell’anima sono cifre senza virgole immortalate dai profeti dei misticismi fungosi che ammuffiscono nelle tradizioni, scavalca il possibile e rinnega l’impossibile, non ti porgo frasi storiche eppure il balsamo dell’aria che piange attraverso le finestre aperte è una cancrena che dalle mattonelle vola nei planisferi della carta stampata, ho bruciato i miei libri di letteratura, parlatemi mettendomi due mani sul petto e spingete come se da me dovesse uscire, come se da me dovesse, come se da me.


Sto osservando il paravento invisibile che mi separa dalla strada, è un occhio nero di Pierrot sbronzo, le cantilene ansiolitiche delle bianchezze insonni serpeggiano tra lenzuola e sudori di fine estate, l’allegria dei dirupi scavalcati con un salto si ammorbidisce in nostalgia anziana, gli unici a grattarsi il naso avvertendo odori malsani sono i bambini solitari che innervosiscono la dipendenza affettiva dei propri genitori.





- Flash (2)





Le sedie capovolte e i germogli di una gobba d’alba ribollente e compressa nella pentola di settembre, riappacificazioni tra colonne sonore ingombranti e filmati privi di latrati, mentre dai balconi scivolano fili d’acqua impregnati di terra.





- Ho tolto le ragnatele dalla mia camera





E poi arrivi tu e mi racconti che ti è caduta una mensola sul piede mentre cercavi di arrampicarti lentamente fino al soffitto della tua stanza - per avere una prospettiva diversa, dici - non posso fare altro che dare credito alle tue menzogne rosa e se ti guardo bene è solo un altro seno che hai, che porti in giro come verità incontestabile e io posso soltanto dire lasciamo da parte tutto questo e prendiamo qualcosa da bere e non conto più i giorni che mi separano da una firma tremolante in appendice a documenti che dovrebbero sfamarmi responsabilizzandomi, ho tolto le ragnatele dalla mia camera e mi sono sentito definitivamente solo, ti ho cercato nelle visioni drogate di fine primavera con lo spavento estivo sulla pelle e non ti ho trovata neanche nelle viscere della nullafacenza oziosa di questi intrecci insicuri che parlano all’aria, i domestici dell’angoscia sono incompletezze all’altezza delle ginocchia, la loro foga è un martellare impotente, credo mi manchi davvero poco prima di prendere il soprabito che non ho mai avuto e tuffarmi nelle strade notturne, begonia di un amore infranto, girasole coltivato sotto la pioggia di rugiada che intristisce un mese qualunque, la mia mania di protagonismo senza applausi si adombra camminando in sincronia con queste narici parallele al monitor, scrivo parcheggiandomi da queste parti.





- Vaniloquio addormentato sul balcone





Ascoltami, qui navi non ce ne sono, né ghirlande al collo, né aromi indimenticabili al limite tra finestre ed aria, i pianeti di notte fanno a pugni per i miei versi sbucciati e lessi nel forno di queste emozioni non identificate, non li capisco, straniero sullo specchio e sul mare, nostromo incapace e barba tra dita e vento, sintonizzo musica che ho scelto nella e per la notte a venire, credimi, qui navi non passano mai e i calendari cadono sovrapponendosi in un biancore senza ricorrenze, le fauci del delirio pisolano indisturbate sulla serranda mite e grave che si affaccia ad ovest delle colline e svegliarsi con un mal di testa non è poi la peggiore delle insidie, peggio è collezionare le angosce del vicinato, o parlare agli alberi morti, o tutto quello che scortica i nostri corpi abbattuti e siamo lapidi senza citazioni, libri chiusi in fretta, bagagli mai disfatti per viaggi impossibili e i percorsi delle sbronze ci modificano, dentro di noi i fiori appassiscono per farsi apprezzare in punto di morte, inserisco parole in questa bocca spalancata e se non cito frasi di altri è perché mi fa male il dente della memoria, neanche la voglia di stare a parlarti di scrittori e poeti, neanche la gloria di una cultura sporca, vado a cambiare gomme ai passanti, vado a chiedere l’elemosina agli animali, guardo i piedi delle persone rumoreggianti tra lenzuola, ho decine di stanze che avanzano capelli e odori, questo non importa poi a nessuno, come le gocce cadute del miglior vino che non sai mai dove ritrovare.





- Pianoforte perforato





Su questa panchina svestita di bosco, di fianco i preamboli fatui della gente che rientra nelle case, hanno nelle orecchie suoni di rientro e sopra le spalle omicidi incompiuti, batto le dita sulla tastiera e Tchaikovsky mi narra cose fumanti da autobus di metropoli intasata, pezzi di pane annerito compongono pavimenti non calpestabili alla portata di un desiderio svuotato di passi verso la cucina, ceno sulle piastrelle invisibili di questi salti di cappelli, la magia oscena che si compie a notte fonda, il ritmo avanza ed è una lamentela di uomo eiaculante su quello che capita a tiro, superpotenza di un sentire condiviso, stringimi gli occhi e fammi vedere quello che hai nascosto tra i respiri viola di questa camera ad occhio e croce malvestita, io ho la mia panchina orrenda che saluta e ringrazia, possiedo miniere d’argento sulle quali ho accumulato salti da euforia infantile, rompendo molle, artrosi, vesciche e lineamenti panoramici, adesso resta il colossale vuoto ammobiliato da nascite premature e morti posticipate, tutto il contrario di tutto ed è questo quello che argomenta, la lezione è iniziata e siete pregati di portare fuori i pannolini dalle sedie, rumori di un inverno tradito, l’ubriachezza delle sinfonie sfioranti le tegole dei palazzi, più in alto ancora ci sono, sdraiato, con pianoforte perforato, tasti orfani di biancore di primo acquisto.
 
- F. nella cucina





Questo secolo di dolori alla schiena, inediti che copulano con inediti, trionfo della giustizia fioca, sono sveglio da quattordici ore e già voglio ritornare da dove sono venuto, il mondo delle lenzuola e degli acquitrini a gocciolare quasi idee, la piacevolezza dell’incompleto, la soddisfazione lesbica di un’inesattezza su un’altra.


Latrati di lingue addomesticate dall’età, fuochi in sostituzione di termosifoni, questo pezzo di quartiere anonimo non mi convince del tutto, potrei alzare una cornetta e contattare l’orecchio moribondo di quelli che abitano di sopra e farmi suggerire una prospettiva dall’alto, ma non ho pazienza per i telefoni, né calma adatta per focalizzare conversazioni, preferisco il gusto delle cose che se ne vanno, gli appuntamenti persi, un abito lasciato su una sedia o i morsi fino alla carne, le unghie che trascinano via tronchi, tutto quello che si muove fingendo di rallentare.


Non ho mai fatto caso alla mediocrità delle altezze di questi edifici cittadini, li accompagno con lo sguardo accostando ai loro recinti urbani una fiaccola di sorriso falso, neanche la dignità di un tuffo prolungato nel vuoto, metri controllati a vista e respiro, finestre calzamaglie notturne a cucire riposi caldi, brodo di gallina per il mal di gola, arancia e vitamine prima del ritorno a scuola - e mi ricordo quel letto enorme dove arrivavano odori dalla cucina e poi i piatti ti cadevano dalle mani e ti ho vista l’ultima volta mentre ti ricordavi dei miei pantaloni lunghi anche in estate.





- Il bacio della





Sì, poi facciamo presto a chiudere la luce e dire buonanotte e intanto gli sguardi atterriti che vagano da cuscini a gatti zampironi con la coda smodata non se la passano come le certezze del nostro click-a domani, e se mi trovi una, dico una fottuta divinità nel tirare su lenzuola fino al mento e dire mah speriamo bene e che anche quest’oggi il postino ha fatto il suo lavoro, i gradini sono stati puliti alle bene e meglio, qualche sberla alle incomprensioni di un adagiarsi sui divani, certo deve essere triste non rimanere sempre nello stesso posto, trattare la mente come un martello, battere colpi e poi fuggire, la pazienza per questo non ce l’ha nessuno.










































































Capitolo V














  • Assenzio reso carne




Tutto ciò che si propone come ultimo mi rende isteriche le pieghe del viso al contrario, senza neanche l’ignoranza dell’iniziazione, serratura leccata di colla e da questo momento in poi manderai le tue scarpe a mugugnare altrove, coscienza di colori che non di dico, che il bianco è una sporcizia colossale.


Ultima notte di piccolo Jack nelle stazioni e nella miseria di una letteratura affumicata, tutte le rinascite accumulate con la mancanza di esperienze sono casualità di strade ritrovate, guida notturna non si sa come ridondante paesaggi noti e teneri. Adesso, invece.


Ritorniamo a parlare di aspetti critici dei barboni addormentati in attesa dell’annuncio al binario, come se dovessero davvero partire, e andare, promuovere palcoscenici di magia e clamore, mi sento un po’ come loro.


Eppure.


Ho una motivazione di cristallo per tutto questo, custodisco con gelosia e segreto, capriccio imbalsamato nella punta delle dita, quiete spezzata in due e quel disintegrare mi ansima dentro, drogato della mia non astinenza al suo pensiero, mi passo una mano sul viso, ho un prurito alla portata del naso e immagino che ci sia lei, qui, ora, mentre scrivo di arrivarle inginocchiato e senza preghiere, senza voce, stremato dalla vita, moribondo d’aria, intrappolato nella morsa di tutti i pensieri che non le ho mai detto, blasfemo soccorritore di orgoglio.


Gente che parla, a voce alta, fastidiosi e stupidi cloni della miseria, li odio a bottiglia vuota, li detesto con la lontananza di lei, non c’è nulla di buono da mangiare in tutto questo, eppure ho prenotato questo spazio di viaggio infinito, incosciente che non sono altro - mi direbbero un po’ tutti - come se potessi minimamente rassomigliare ad uno disposto a tutto, come se avessi un’armatura da poeta con la quale giustificare tutto questo, e lei rompe egoismi, non ha nome, tutto ciò che la compone è assenzio reso carne.





- Siamo giunti all’ultimo capitolo





Siamo giunti all’ultimo, tragico, capitolo, scriverò le pagine che restano con una confusione immaginata e corrotta di consapevolezza, tu che leggi non seguire, non imitare, non essere ciò che sarà crocefisso, abbandona la tua gelosia parcheggiata nei pressi dell’asciugamano che usi per la lingua, vai al di là di queste pagine e non considerare possibilità di rimpianto, lascia che l’errore sia per altre occasioni, quando ci sarà qualcosa da cui apprendere, non in questo intento di insegnare zero.





  • Questo non salire




Il controllore ha uno sguardo da padre devastato dall’alcol del proprio figlio, dice che non posso salire perché le cose non vanno in questo modo, c’è modo e modo per procurarsi un biglietto ed io pretendo di averne uno valido per tutte le destinazioni a cui concedo una forma strana di affetto, a cui nego identità naturali, dove si parte dal corpo, poi dalle parole, poi nuovamente dal corpo stravolto, dalla sbronza, da ciò che può farci male nella piena conoscenza degli eventi, dio, sto scrivendo da assassino con tre minuti per ripulire il coltello, questa gente nel vagone pensa forse che io debba attingere dalle loro facce, sobrie, schifosamente accompagnate dal buon gusto di crescere.


Ecco, è la sua fermata, questo tizio che fino a dieci minuti fa sonnecchiava in dormiveglia da infante, bocca aperta e lingua arricciata sopra ai denti, ora ha raccolto la sua valigia e con aria da intellettuale dei treni fermi si appresta a scendere, gli occhiali ed il giornale, il terrorismo di una canarino in gabbia, apri le ali e vai a fanculo, io resto qui, seduto, a scrivere.


Nonostante tutto sono arrivato alla stazione, V. era lì, bassa e con un sorriso di riconoscimento di cui non avrebbe avuto bisogno nessun lettore di poesie.





- Stazione Bologna, attesa





Se c’è qualcosa di paradossale, visibile, non ne riconosco i lineamenti, labbra che non mi ricordano nessuno, questo bagaglio di mondo lasciato incustodito, zingaro triste, oggetto selezionato per una morte lenta ed un’esistenza priva di senso.


Un anticipo involontario, queste tre ore avanzate da lei, le nuvole hanno accompagnato il crepuscolo danzandosi l’una sull’altra, ho avuto finestrini di un rosso reso sciroppo per bambini, che quasi spostavo gli occhi altrove, per la malinconia di un momento sbagliato, tastiera distrutta, scrivo con una penna santa ed intoccabile, ho pruriti di voglia alla portata del suo pensiero, lontana, sopravissuta agli alibi della poesia, non pensare a nulla, soltanto al tuo foglio osceno, saccente nel farsi insultare, porco, bagnato di un sesso non concessogli, foglio disponibile a tutto pur di esserci, di farcela, di dimostrare a questa eterna attesa una passione insana.


Mentre decanto in silenzio la tirannia della carta, la gente guarda orari di partenze. Cercano le loro città, finestre dalle quali affacciarsi, appuntamenti sulle scale, effetto dolce ed erotico dei propri amanti, stato di conservazione dei sorrisi, apertura polmonare nel piacere di una sigaretta lasciata arrampicarsi sul respiro, emancipazione dei balconi verdi, cercano questo nei recapiti, ed invece.





- Che esploda tutto il resto





Bisogna avere gambe e piedi per correre, inutile dire. Inutile correre.


Apatia gratuita, rifornimento agevole alla portata di questo combinare casini ammortizzato dal “così è” propagandato dai tuoi giorni, non c’è nulla di buono in tutto questo, e se, invece, rompessimo tutto, di questo grano lasciato giallo vecchiaia ad ammuffire campi, delle scatole chiuse e poi nascoste sotto ai letti, dei rimproveri per cattiva condotta, non rimarrebbe nulla, delle pagine, nulla, zero, il fumo annaffia possibilità di aria pulita, fino a strozzarne la crescita, fumiamo ancora, dunque, rompiamo tutto, disinneschiamo bombe di pace, che esploda tutto il resto, noi compresi, i perciò rattoppati nella sartoria dell’esperienza, immagino dove possa essere V. in questo momento, poi nulla, persa l’immagine, crollato il muro, dietro altre dinastie di mattoni starnutiti da cattiva cura della manualità, V. non c’è, l’interruttore è stato preso a calci, eternamente spento, tutti gli addetti alla manutenzione della visibilità sono morti, nessuno che operi nel settore, siamo qui a cercare poesia e letteratura e proprio al nostro fianchi ci dimostrano passi brevettati per una felicità eiaculata, andiamo via da questo libro, postaccio orrendo e insano, puzza di animali bastonati, il sangue, lo senti, il sangue?











  • Per questa fine annunciata




Avanti, per questa fine annunciata, per tutto ciò che c’era da scrivere e che è stato scritto, ultimo giro di ronda, perché dopo le sue labbra, perché dopo tutto, ultimo treno a venticinque minuti e incalcolabili lettere da scaraventare nell’epilogo che dispiacerebbe a chiunque, mare penetrato, collasso di terraferma, arresto cardiaco di montagna, la scia indecifrabile collocata ai piedi immobili dei vaganti è materia fertile sulla quale scrivere, scrivere ancora, fino a quando i polsi, fino a quando le dita, tremore di palpebre, respiro a mancare, batterie degli orologi lanciate contro vetri, teste spaccate sui muri, isteria collettiva, sto versando da bere a tutti quelli che non hanno ancora, che non hanno per causa di, come vedi approfitto sempre delle gambe allargate delle virgole, interrompo flussi per poi ripescarli dal loro annegamento, cretino e ingenuo, tutte le bocche che non ho mai avuto per dire questo, voce di altoparlante che stritola parametri d’aria, tutto da ricalcare a matita, poi incidere su pietra e incendiare, ammortizzare qualità colloquiali di ogni sorta, una discussione sbronza ed infinita con il nulla, questo girovagare senza sosta ha imparato dall’aridità del non realizzato, girasoli bruciati e i loro gambi prorompenti messi in una galera, impossibilitati nella fuga dal loro stesso intrecciarsi, i cui resti decennali saranno riciclati e poi verranno nelle nostre case, sotto i regali di fine anno, nei ripiani lucidi delle cucine, formando corde a sorreggere le medaglie dei padri dei padri, reliquie straordinarie cui elargire l’applauso fragoroso della scena conclusiva, il disprezzo per ciò che è un passato di morte d’improvviso è surrogato del miglior senso di appartenenza, ti ho sempre portato fuori strada con le parole, non ti stupire di nulla, il mio intento era quello di farti arrivare qui, sudato, se hai letto, confuso, sconosciuto a me e a te stesso, non ti ho dato nulla ma potresti anche prendere tutto, alla fine, dopo tutto, sei tu che hai scelto di, sei tu che hai scelto e mi hai lasciato scrivere per tutto questo tempo.
 
Ci siamo sovrapposti
come terzini che non sanno mai crossare
ed avevamo fiato corto e gambe lunghe
per permetterci l'ardire
di musicare spettri già di seta
equilibrare palcoscenici imbecilli
arroventare ferri già spettrali
e chiederci da un giorno all'altro
il patetico distinguersi
nella massa, nella messa, nell'impasto
nella ressa
nelle guerre mai accettate
perché mai poi combattute
La bellezza è
dimenticare un giorno
avendolo vissuto
senza il presupposto instabile
di corroderne l'affitto
in un pianto d'osteria
Ma certe storie atroci
preferisco raccontarle
ai venditori d'ozio
che mi arrossano l'inerzia
e pago quel che devo e forse peggio
nei tramonti di un perdio
che è come bello il cielo
quando si fa linea d'ombra
dove posso bestemmiarlo
senza chiedere un responso
Ci siamo contrapposti
e Mallarmé era un codardo
sulle nostre assuefazioni:
se ce la fate
andate per le terre
e rovinate le pagine
dei libri dei vostri mendicanti
rifiutate l'ovvio
la stucchevole dolcezza
e siate violenti
di fronte ad uno sguardo
capace di farvi dimenticare
la banalità del creato:
se non ce la fate
continuate a vergognarvi
della poesia,
allontanatevi da certi scogli
sanguinate sulle gengive
delle persone che sanno
addomesticarvi alla noia,
alla depressione
ed alla forma più alta
di solitudine.
Siate responsabili
del libero mercato
e vendetevi
all'offerente ormai scalzo;
se non ce la fate
dimenticate tutta la bellezza:
ha un'arma immanente
di fronte ai vostri occhi stempiati
ma non pretendiate
sia memoria.
 
Già autunno. I clavicembali slabbrati suonano note prive di vipere nel viscidume ancestrale della messa in gioco. Le foglie scolorite depositate sui giacigli dei cammini dei folli mi imbastiscono luccicanze febbrili, mentre calpesto il suolo grandinato di fredde implicazioni. Questi cadaveri di alberi mi corrodono con le proprie ossa stanche ed annerite. Non ho alcun desiderio, solo la luce amaranto che mi spettina l'ultimo residuo di clamore è lì a togliermi dal martirio un'innocente scommessa di dadi truccati; esagerate e lascive forme di indecenza mi sussurrano giochi di morte mentre muoio nel contrasto disinnescato. Posso vendere paura ai defunti, comprando dalla loro pace un pezzo di rivalità.
Ho creato feste imbastardite dal fuoco spento della vergogna e pago senza alcuna moneta i cancelli anneriti. Ho preteso mondi impossibili ed ho riso a squarciagola della presunta funzione d'esserne parte; ho barattato univoche trasfigurazioni della menzogna per contemplare la più catastrofica verità degli specchi; ho urlato in stanze prive di colori perché avessero un giorno la mancanza di pace cui mi sono reso servo febbrile.
 

Scum_H

Campione
  Bannato
I condizionamenti sociali, le aspettative genitoriali, gli obblighi e i divieti a cui siamo sottoposti dalla nascita, plasmano la nostra personalità e creano modelli di pensiero e di comportamento artificiali che ci allontanano da noi stessi, contraendo le nostre emozioni e dominando i nostri desideri. Veniamo letteralmente deviati, fino a non sapere più chi siamo, vincolati a vivere esistenze insoddisfacenti, permeate dalla paura o dalla brama, segnali della profonda incoerenza che sentiamo dentro. Finiamo per lottare solo contro noi stessi: paura del giudizio, del fallimento, del rifiuto, dell’abbandono, smania di potere, di sesso, di svago, di controllo, di sostanze, di riconoscimento, di amore. Mostri si generano al nostro interno e ognuno trova fuori i demoni relativi a ciò che sta combattendo.Se continuano a presentarsi sempre le stesse situazioni che ci arrecano sofferenza e problemi, significa che non abbiamo mai smesso di mettere in atto i medesimi schemi che rispondono agli stessi bisogni interiori.
Ciò che attraiamo riflette ciò che siamo.
In sintesi, attrarremo quello che ancora è irrisolto in noi, fino a quando non cambieremo le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti. Il mondo ci mostra parti di noi stessi nelle persone e negli eventi. Sapere cosa si vuole realmente, essere centrati su di sé, permette di agire in sintonia con l’esterno, comprendere la realtà e attuare le giuste mosse per raggiungere gli obiettivi. Se non accettiamo quello che siamo continueremo a proiettare sugli altri le nostre parti intollerabili, suscitando in loro risposte analoghe alle nostre paure, finendo per realizzare sempre le stesse dinamiche. Attrarremo quello che ancora è irrisolto in noi, fino a quando non cambieremo le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti.
Ciò che osserviamo non è altro che il nostro riflesso come in uno specchio ed in questa ottica è inutile affannarsi per modificare la realtà: è l’interpretazione che deve cambiare.
Bisognerebbe osservare cosa ci rende insofferenti e abbandonarlo perché tutto ciò che è fonte di dolore e di stress non ha più ragione di esistere nella nostra vita. Bisognerebbe valorizzare le persone positive e le condizioni che ci fanno sentire veramente bene, realizzati. Ascoltare le nostre emozioni e Vivere nel qui e ora, senza ansie e aspettative, accettando ciò che succede e considerando quello che si manifesta nel presente come sufficiente: è inutile essere impazienti, è un atteggiamento che distoglie la focalizzazione su ciò che è necessario affrontare ora per costruire il futuro. Bisognerebbe Fidarsi del proprio intuito.
Ogni esperienza si realizza quando si è pronti o quando urge una svolta; in caso contrario, ogni ricerca sarà vana. Solo così è possibile tenere in mano il timone della vita o almeno provarci.
 
I condizionamenti sociali, le aspettative genitoriali, gli obblighi e i divieti a cui siamo sottoposti dalla nascita, plasmano la nostra personalità e creano modelli di pensiero e di comportamento artificiali che ci allontanano da noi stessi, contraendo le nostre emozioni e dominando i nostri desideri. Veniamo letteralmente deviati, fino a non sapere più chi siamo, vincolati a vivere esistenze insoddisfacenti, permeate dalla paura o dalla brama, segnali della profonda incoerenza che sentiamo dentro. Finiamo per lottare solo contro noi stessi: paura del giudizio, del fallimento, del rifiuto, dell’abbandono, smania di potere, di sesso, di svago, di controllo, di sostanze, di riconoscimento, di amore. Mostri si generano al nostro interno e ognuno trova fuori i demoni relativi a ciò che sta combattendo.Se continuano a presentarsi sempre le stesse situazioni che ci arrecano sofferenza e problemi, significa che non abbiamo mai smesso di mettere in atto i medesimi schemi che rispondono agli stessi bisogni interiori.
Ciò che attraiamo riflette ciò che siamo.
In sintesi, attrarremo quello che ancora è irrisolto in noi, fino a quando non cambieremo le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti. Il mondo ci mostra parti di noi stessi nelle persone e negli eventi. Sapere cosa si vuole realmente, essere centrati su di sé, permette di agire in sintonia con l’esterno, comprendere la realtà e attuare le giuste mosse per raggiungere gli obiettivi. Se non accettiamo quello che siamo continueremo a proiettare sugli altri le nostre parti intollerabili, suscitando in loro risposte analoghe alle nostre paure, finendo per realizzare sempre le stesse dinamiche. Attrarremo quello che ancora è irrisolto in noi, fino a quando non cambieremo le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti.
Ciò che osserviamo non è altro che il nostro riflesso come in uno specchio ed in questa ottica è inutile affannarsi per modificare la realtà: è l’interpretazione che deve cambiare.
Bisognerebbe osservare cosa ci rende insofferenti e abbandonarlo perché tutto ciò che è fonte di dolore e di stress non ha più ragione di esistere nella nostra vita. Bisognerebbe valorizzare le persone positive e le condizioni che ci fanno sentire veramente bene, realizzati. Ascoltare le nostre emozioni e Vivere nel qui e ora, senza ansie e aspettative, accettando ciò che succede e considerando quello che si manifesta nel presente come sufficiente: è inutile essere impazienti, è un atteggiamento che distoglie la focalizzazione su ciò che è necessario affrontare ora per costruire il futuro. Bisognerebbe Fidarsi del proprio intuito.
Ogni esperienza si realizza quando si è pronti o quando urge una svolta; in caso contrario, ogni ricerca sarà vana. Solo così è possibile tenere in mano il timone della vita o almeno provarci.

1) Non è prosa d'arte.

2) Non è tua.

3) Fai schifo.
 
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