L’ennesima dimostrazione di immaturità. Con questo verdetto l’Inter lascia San Siro, al termine di un caldo pomeriggio estivo cominciato bene e conclusosi nel peggiore dei modi. La prima brutta notizia arriva con l’arrivo delle formazioni ufficiali, specialmente guardando alla panchina: Barella va in tribuna a causa di un affaticamento agli adduttori e le sue condizioni verranno valutate domani con esami diagnostici. E così, si ripete il loop che ha caratterizzato il centrocampo interista per tutta la stagione: per ogni ritorno c’è una defezione, e così via.
E l’illusione di vedere un centrocampo composto da Brozovic, Barella ed Eriksen svanisce, costringendo Conte ad affidarsi ancora una volta a Gagliardini. Che risponde alla sua maniera: male. Il secondo risultato negativo del post-ripartenza è segnato ancora una volta da un suo clamoroso errore, quello che regala l’1-1 al Bologna. Ma il disastro a cui si è assistito nel secondo tempo non è riducibile alla solita pessima prova di Gagliardini. Nei secondi 45 minuti, infatti, funziona davvero poco.
Il solito crollo
L’Inter si fa rimontare ancora una volta, dimostrando di non reggere 90 minuti sullo stesso livello, quindi di non riuscire a disputare una partita “completa”. Unica eccezione, la gara con il Brescia. Anche contro il Parma, infatti, la situazione si era nuovamente verificata, con la differenza che l’Inter partì male e concluse bene.
Ieri, però, è andato in scena un vero festival dell’horror. Se nei primi 45 minuti la squadra era apparsa tonica e concentrata, e l’inizio del secondo tempo – palo di Barrow a parte – non era stato da buttare, l’inerzia cambia quando non dovrebbe cambiare. Ci riferiamo all’intervallo di tempo trascorso fra il 18′ e il 20′ della ripresa: espulsione per gli avversari e subito dopo rigore a favore. Ritorneremo, nello specifico, sul penalty. Fatto sta che da quel momento in poi – ovvero dall’errore dal dischetto di Lautaro – l’Inter appare mentalmente disunita. Non funziona più niente: in difesa si perdono le marcature, si perde ordine, si moltiplicano gli errori e Bastoni viene espulso ristabilendo la parità numerica; il centrocampo – complice un Brozovic stremato – è nullo; in attacco soltanto Lukaku dà segni di lucidità, facendo sempre la scelta giusta in area di rigore o a ridosso, mettendo Sanchez davanti al portiere. Ma il cileno sbaglia due volte il gol del 2-2 che avrebbe potuto riaccendere la fiammella della speranza nel finale. Lukaku, però, nonostante una buona partita, pecca gravemente di altruismo in un’occasione decisiva e pesantissima per l’economia del match.
Altruismo eccessivo
Partiamo con una premessa. Subito dopo il fallo da rigore su Candreva, Lautaro Martinez ha preso il pallone in mano. E Romelu Lukaku non se l’è sentita. Di far cosa? Di riprenderselo. Di privare il suo compagno d’attacco (oltre che amico) – con il quale ha condiviso dei mesi straordinari e giornate di gloria – della possibilità di spezzare l’incantesimo. Il Toro, pur con delle buone prestazioni, non riesce proprio a trovare la via del gol. Ed è parecchio nervoso. Lo si è visto contro il Brescia, e lo si è visto nell’empatia con la quale Lukaku lo ha subito abbracciato dopo la propria rete, con la quale ha sfruttato il rimpallo sul palo dovuto ad una grande girata di testa dell’argentino. E così gli ha concesso di calciare. È stato un errore, senza dubbio. Prima di tutto a livello concettuale. Perché, in un momento del genere, nella quale la porta per Lautaro è stregata e la frustrazione è massima, presentarsi sul dischetto del rigore in un’occasione per giunta importante significa una sola cosa: avere tutto da perdere. E infatti ha perso. Poi, a livello tecnico: il Toro – anche nella stagione passata – ha dimostrato che il tiro dal dischetto non è la sua specialità, anche nei casi in cui ha segnato. La freddezza di Lukaku e la capacità di spiazzare il portiere quasi sistematicamente dagli 11 metri è ben altra cosa. Il belga è stato altruista, ma un conto è esserlo – come fu per Esposito – quando sei avanti per 3-0 in un momento di grazia per l’intera squadra, un conto quando c’è assolutamente da chiudere la partita per evitare brutte sorprese. Che puntualmente si sono concretizzate.
Eriksen, sveglia!
Sul danese comincia a stagliarsi un ombra di mistero. Appare francamente incomprensibile il suo atteggiamento sul campo: lentezza disarmante, svogliatezza che a volte sfiora la supponenza. Ma soprattutto errori tecnici, che dovrebbero essere la specialità della casa. Va bene l’adattamento, nonostante abbia potuto contare su un mese intero di lavoro ad Appiano Gentile fra maggio e giugno, ma Eriksen è completamente avulso dal gioco. E questo nonostante il modulo sia stato variato ad hoc proprio per concedergli la sua zolla prediletta, quella da trequartista, nella quale ha incantato l’Europa con Ajax e Tottenham. Da qui a bollarlo come fallimento ce ne passa, ci mancherebbe. Ma cominciano a diventare troppe le partite insufficienti. Serve una scossa, dall’allenatore, dalla dirigenza, ma in primis da se stesso. Basta giocare sulle punte, basta nascondersi, basta corse svogliate. Eriksen può, deve fare di meglio. E siamo sicuri che lo farà.
La strigliata
Subito dopo la partita, Antonio Conte ha tenuto un discorso dai toni molti accesi nello spogliatoio, della durata di circa 40 minuti e alla presenza dell’amministratore delegato, Giuseppe Marotta. Le urla si sono sentite dall’esterno. E il tecnico si è portato dietro la delusione anche in conferenza stampa, nella quale ha dichiarato di sperare che “i giocatori provino almeno l’1% della mia delusione. Era una partita da vincere in carrozza e siamo riusciti a perderla”. E qui apriamo il capitolo Conte. I cambi sono stati ritardati, è vero, probabilmente si potevano effettuare con un po’ di anticipo. Ma quando si parla di sostituzioni, pensiamo anche agli uomini sui quali Conte poteva contare in panchina. Sanchez è l’unico in grado di dare una svolta alla partita (prova da dimenticare anche per lui), ed infatti è stato inserito subito dopo l’1-1 al posto di Eriksen, rischiando anche le tre punte contemporaneamente. Il resto? Borja Valero, Vecino, Biraghi, Esposito. Nessuno di questi ha la capacità di cambiare l’inerzia dei match, ed infatti si è visto nel momento in cui sono stati chiamati in causa. Il deficit dell’Inter – almeno per lottare per gli obiettivi più ambiti – è la rosa. Deficitaria qualitativamente più che quantitativamente. Perché se in attacco manca la quarta punta, negli altri reparti le alternative non sono di livello. Non sono da Inter. Specialmente a centrocampo. Non dimentichiamo che Conte, da quel maledetto 6 ottobre, non ha mai potuto disporre dei tre titolari del ruolo. Barella, Brozovic e Sensi insieme non si sono praticamente mai più visti a causa degli infortuni, che hanno condizionato in maniera abnorme la stagione nerazzurra. La speranza è che la sfuriata di ieri sera sia il primo passo per decidere quali sono i profili su cui puntare per il 2020-21. Ed è un passo che dovrà essere concordato fra Conte, i dirigenti e la proprietà.
Conclusioni
L’Inter, a sorpresa, non si avvicina al secondo posto, ma al quarto. Si fa rimontare nuovamente, mostrandosi nuovamente immatura. Questa “non è una grande squadra”, come ha ammesso candidamente Conte, assumendosi nello stesso tempo la responsabilità principale. Una grande squadra non si scioglie al primo evento avverso, in questo caso un calcio di rigore sbagliato, e non si rende protagonista di crolli così trasversali, specie da un tempo all’altro. Una costante della stagione. Le responsabilità sono condivise. La sensazione, però, è che queste ultime otto partite, oltre che utili per conservare il terzo posto e per tentare l’assalto al secondo (4 punti sono teoricamente ancora recuperabili), serviranno anche a capire definitivamente chi è da Inter e chi non lo è. E per “da Inter” intendiamo un’Inter vincente.