Incredibile come il giudizio di un match, per giunta così importante, possa cambiare così radicalmente da un tempo all’altro. Non se ti chiami Inter, non se il crollo nella ripresa non fosse così pronosticabile: questa squadra e, spiace dirlo, anche questo allenatore, ci hanno abituato troppo a questi cali nei momenti che contano e a quel “braccino” che sempre e inevitabilmente spunta fuori. Era importante, importantissima questa partita: inutile rimarcare come fosse l’ennesimo match-point, ormai nausea anche dirlo, ma qui si trattava del derby d’Italia. E se l’anno scorso i nostri ragazzi ci avevano reso comunque fieri, nonostante un epilogo atroce con il gol di Higuain a tempo scaduto, questa partita è indice della mentalità perdente che si è ormai radicata in questo gruppo. L’Inter disputa un match a due facce, mostrando il suo meglio e il suo peggio a livello di mentalità.

Il coraggio

La faccia coraggiosa esce tutta fuori nel primo tempo e nell’approccio al match. Spalletti sceglie Icardi dal primo minuto, lasciando Lautaro Martinez in panchina. Il numero 9 si sbatte, lotta, mostrando un altro volto del suo stile di gioco: poco incisivo nel momento del passaggio decisivo o dell’occasione-gol (vedi tiro rimpallato da Matuidi), tanto spirito di sacrificio per la sua squadra. Nainggolan si regala il gol più bello della sua carriera contro la Juventus (forse in assoluto), ma i nerazzurri continuano a macinare gioco: è quella che tutti sogniamo, rispecchia i valori dell’Interismo, dà l’idea di voler mangiare l’erba di San Siro: Icardi e De Vrij sfiorano il raddoppio, la Juventus appare alle corde con Ronaldo controllato benissimo dal tandem Skriniar-De Vrij. Nel momento in cui però l’arbitro effettua il duplice fischio di fine primo tempo, c’è quella soddisfazione mista a rammarico per il risultato, che poteva essere più largo.

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Ma soprattutto, c’è quella sensazione, quella intima consapevolezza che la mancanza di cinismo costerà cara alla squadra di Spalletti. Perchè in fondo tutti conoscono bene questa squadra, la sua indole, il suo carattere, la sua debolezza. Che, al momento, e in queste condizioni, non è da big. Sta per subentrare, infatti, il sentimento più naturale nella natura umana, quello che però, su un campo da calcio e nello sport in generale, andrebbe controllato ed evitato con tutti i mezzi. Specie se affronti una squadra che ha già vinto lo scudetto, è la tua eterna rivale e giochi nella tua tana.

La paura

E’ uscita fuori ancora una volta, irrefrenabile. E ancora contro i rivali più grandi. Se lo scorso anno si era riusciti a sfiorare una delle partite più memorabili della nostra storia – nonostante gli errori macroscopici di Orsato -, rovinata solo dal cambio Santon-Icardi, quest’anno la paura si è avvertita, forte e chiara, già dai primi secondi del secondo tempo. Squadra schiacciata, tutta indietro, in balia dell’avversario che trova giustamente e prevedibilmente il pareggio con un sinistro secco di Ronaldo. Ciò che colpisce e che fa più paura, stavolta a noi tifosi, sono l’atteggiamento e le scelte di Spalletti dopo l’1-1. La situazione era emblematica: Juventus già campione d’Italia, Inter in casa e con l’obiettivo Champions ancora da centrare. Ci si aspetta quantomeno che i nerazzurri provino a raggiungere la vittoria con ogni mezzo. Riuscirci o meno è un altro conto. Ma ancora una volta, l’ennesima, le scelte vanno in un altro senso: due cambi difensivi, Borja Valero Joao Mario per Nainggolan e Perisic. Spalletti decide così di rinunciare a Keita, l’unico in panchina in grado di saltare l’uomo in un secondo tempo così bloccato per i nerazzurri. E stavolta non si provano le due punte che con la Roma, in coppia, avevano cambiato la partita (prima del cambio Lautaro-Joao Mario che aveva riconsegnato nuovamente il pallino del gioco ai giallorossi). La coppia argentina non può disputare neanche 15 minuti insieme contro una Juventus già campione, e così si sceglie Lautaro Martinez (approccio comunque positivo al match) proprio per Icardi. Il copione del secondo tempo continua fino all’ultimo secondo: la squadra teoricamente senza motivazioni spadroneggia e rischia di trovare la vittoria all’ultimo secondo con il giovanissimo Pereira, mentre la squadra in casa, stra-motivata, arrabbiata, si accontenta del punto. Ancora una volta. Sono partite come queste che dovranno fungere da spunto, nelle decisioni di giugno. A tutti i livelli. Per ora, però, mancano 4 partite: quelle che dovranno portare nuovamente l’Inter in Champions League. L’obiettivo minimo.

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24 anni, laureato in "Scienze della Comunicazione" presso l'Università della Calabria. L'Interismo è qualcosa che scorre dentro senza freni, in maniera totalmente irrazionale. Condividere questo sentimento è magnifico, scrivere di Inter ancora di più.