Il bel gol del 2-0 contro la Spal ha riacceso le speranze dei duri a morire nei confronti del Gaglia, ma è indiscutibile che fra tutte le varie sciagure che si sono susseguite in maglia nerazzurra in questi ultimi otto anni, uno dei più grossi punti interrogativi è quello legato all’ex-Bergamasco. L’acquisto del centrocampista sembrava il guanto di sfida a suon di milioni lanciato da Suning alla Juventus, ma dopo due anni e mezzo la sensazione diffusa è quella dell’amaro in bocca per un giocatore che dava l’impressione di poter essere decisivo per la causa interista ma che ad oggi non sembra riuscire a farlo.

 

Talento purissimo

Nei primi sei mesi della stagione 2016-17 con la maglia della dea, Gagliardini, pur non essendo un titolare inamovibile, ha un impatto importantissimo. Andando a rivedersi le pagelle di quelle settimane si può leggere “Piccolo Gerrard cresce”, “i suoi inserimenti in area determinano crepe”, “Mostro di personalità”, “Ecco un nome per l’azzurro del futuro”, “autorevole, infaticabile, sempre in profondità”; i ben più sorprendenti, “lucido, tocchi di fino”, “regista moderno”, “eleganza e concretezza” e lo sconcertante “27 passaggi positivi e soltanto 5 negativi”. Un coacervo di aspettative che la società nerazzurra decide di cavalcare investendo ventidue milioni di euro e dandogli il numero cinque di Stankovic senza preoccuparsi di fomentare gli accostamenti. Gli inizi sono importantissimi, la tranquillità e la potenza del centrocampista sembrano avere un impatto fisico dominante nel centrocampo dell’Inter e i due gol in mezzo campionato sembrano ai più l’antipasto di un calciatore votato alla verticalità. Da lì a poco entrerà nel giro della nazionale e un senatore come De Rossi lo eleggerà suo erede “Gagliardini penso che sia destinato a diventare un pilastro di questa nazionale, già dalla prima volta che l’ho visto giocare ho pensato subito che avesse qualcosa di diverso dagli altri”.
E poi cosa è successo?
Ecco tre possibili spiegazioni:

Semplice Hype

Roberto Gagliardini non è mai stato un giocatore importante, ma è solo uno dei tanti giovani italiani pompati dai media e descritti dalla stampa come dei futuri campioni senza una concreta attinenza con la realtà. Una pratica fin troppo comune nel calcio italiano legata al bisogno del pubblico di nuovi protagonisti in una nazione storicamente ricca di talenti ma stranamente arida, in questo senso, da oltre un decennio. Un contesto florido per procuratori attenti a media e comunicazione la cui necessità è far fruttare il più possibile qualsiasi fuoco di paglia si dipani nel triste campionato di serie A. Gattuso riguardo all’esplosione del centrocampista disse “Gagliardini era uno che l’anno scorso faceva fatica ad essere titolare in serie B, batta il ferro fino a che è caldo”.
A favore di questa tesi vi è il limitato arco di tempo in cui Gagliardini ha fatto di parlare di se per come giocava a calcio: sei mesi all’Atalanta e tre mesi all’Inter.

La parabola Ranocchia

All’Inter esiste l’abitudine di gridare al campione dopo tre prestazioni di livello, caricare di enormi responsabilità ragazzi di 23 anni a cui si consegna questa convinzione di vivere un sogno di cui, al risveglio, non riescono nemmeno a raccogliere i cocci. Una patologia presente anche in altre società, ma che trova uno sfogo più acuto in una piazza tanto viscerale e volubile come la nostra ed una città ultra mediatica, modaiola e mondana come Milano. La potremmo chiamare la parabola Ranocchia, ma anche esempi più illustri, come l’imperatore Adriano, hanno fatto il medesimo percorso. Gagliardini da perfetto sconosciuto in pochi mesi si è trovato nello studio di Cattelan a dare talmente per scontato che i gol sarebbero arrivati a profusione da inventarsi un’esultanza tributo alle sue origini lombarde. Poi la solita trafila: la maglia nerazzurra che diventa pesantissima, la paura di sbagliare, il terreno che scotta e la piccionaia di San Siro che a suon di fischi non perdona nessun errore.
A favore di questa tesi vi sono le parole di Spalletti nel post-partita di domenica: “Dopo il gol Gagliardini era un altro giocatore, siamo troppo emotivi e abbiamo paura di sbagliare”.

Nel posto giusto al momento sbagliato

E se invece i problemi del Gagliardini fossero di natura tattica? E se fosse un centrocampista antitetico per caratteristiche al calcio di Spalletti? L’ex atalantino ha avuto difficoltà solo con l’allenatore toscano e, pur se in un periodo più breve, il suo calcio migliore l’ha fatto vedere con due allenatori, Gasperini e Pioli, sicuramente diversi ma che fanno dell’impatto fisico, la pressione alta e il gioco ultraverticale dei principi fondanti più consoni alle caratteristiche di Gagliardini. Quello del palleggio sembra essere il fondamentale in cui il centrocampista è più in difficoltà e Spalletti predilige un possesso reiterato su cui non si trova a suo agio ed un ritmo cadenzato e sapiente in cui sembra non riuscire mai ad ingranare i suoi motori. Non è un caso che l’allenatore lo veda come un mediano di stazza, quando in realtà se piazzato con i piedi puntati davanti alla difesa (specie nei due nel 4-2-3-1) gli avversari sembrano girargli intorno avendo la meglio in velocità nel breve. Nei primi giorni interisti quando gli chiesero il suo pregio principale, Gagliardini curiosamente rispose “la capacità di prevedere dove cadrà la palla”, una descrizione che lo stesso Pioli trovò molto calzante. Un’immagine che ci consegna l’idea di un gioco opportunistico concepito in maniera verticale ed orientato verso la porta avversaria, sia se questo significhi l’anticipo, la conquista delle seconde palle o l’inserimento in area avversaria.
A favore di questa tesi vi sono le immagini del filotto di vittorie di Pioli, dove quel senso dominante di Gagliardini sembrava esprimersi attraverso queste caratteristiche.