Quando si parla di leggenda – specialmente in ambito sportivo – e quindi di squadre leggendarie, c’è una sorta di prova del nove alla quale questi gruppi storici si sottopongono: se l’intensità del loro ricordo è direttamente proporzionale agli anni che passano, beh, la prova è superata. È successo, per fare un esempio di estrema attualità, ai Chicago Bulls con la splendida serie The Last Dance realizzata a ben 22 anni di distanza dall’ultimo grande ballo. Ci piace pensare che anche quella dell’Inter 2010 sia stata l’ultima danza di un’avventura epica, cominciata 5 anni prima.

L’impresa indelebile, incancellabile, eterna di quella squadra mitica oggi compie 10 anni: una prima decade si chiude ed il ricordo di quelle prodezze, di quelle notti leggendarie – appunto – si fa sempre più forte e vive in ognuno di noi, sempre più limpido, senza possibilità di essere scalfito dagli anni che passano e da un mondo che cambia, oggi più che mai. Quello del 2010 è stato un cerchio che si è chiuso in maniera elegante, sopraffina, in pieno stile Inter. Ma cos’era quella squadra per tutti noi, oltre ad un meraviglioso sogno che si realizza concretamente, sotto i nostri estasiati occhi?

Era l’Inter di Julio Cesar, che ha acchiappato i nostri sogni e li ha resi tangibili, a portata di mano, consentendoci di viverli in tutta la loro pienezza. Come in quella notte di fine aprile a Barcellona: ci piace pensare che nella spinta che gli consentì di toccare con la mano destra quel tiro apparentemente imprendibile di Messi ci fosse anche la nostra passione, la nostra anima, la nostra sofferenza. Il nostro spirito resiliente. Nerazzurro. Era l’Inter di Maicon, il terzino destro più forte della nostra storia, nelle cui cavalcate ci rispecchiammo, e che portarono la Beneamata in trionfo, fino al gradino più alto d’Europa e del Mondo. Un flash su tutti: quella meravigliosa prodezza realizzata contro la Juventus, nella prima partita da secondi in classifica, quando inconsapevolmente si sarebbe potuto mollare. Un gioiello da fenomeno rivelatosi fondamentale per lo scudetto. Ma Maicon non era solo questo: era un condensato di tecnica, forza fisica, spirito tipicamente brasiliano che si coniugava alla perfezione con la concretezza. Era l’Inter di Lucio Samuel: il primo scartato l’estate precedente proprio da quel Bayern che annientò in finale, il secondo il nostro Muro, la nostra sicurezza, colui a cui aggrapparci nei momenti difficili. Tanto non si passa. Era l’Inter di Chivu, vittima di un tremendo infortunio a gennaio: i suoi compagni dopo quel Chievo-Inter si precipitarono in ospedale. Lui, nel primo momento di coscienza, disse: “Non fate scherzi, torno presto”. In quell’appello c’era tutta la speranza, la certezza, la sensazione che quello sarebbe stato l’anno buono, come gli disse sua moglie nel momento dell’operazione: “Si dice che per ottenere qualcosa bisogna fare un sacrificio. Questo è il tuo. Vincerete la Champions League”. Chivu tornò con tempi da record, e quella Champions la vinse da titolare al Bernabeu. Era l’Inter di chi c’era il 5 maggio, negli euro-derby, nelle delusioni più cocenti, quindi Toldo, Cordoba e Materazzi. Con il portiere Mourinho se la prese dopo la sconfitta di Catania, nonostante non avesse giocato: “Francesco, non sei più quello di prima”. La magia di quella stagione si spiega anche nel fatto che Toldo se ne convinse, e reagì per dimostrare di essere ancora affidabile. La dimostrazione che ognuno, in quel gruppo, era di fondamentale importanza. Il colombiano – impiegato di rado – non deluse mai. Sempre sul pezzo. Sempre sulla corda. Sempre concentrato. E che dire di Matrix, che solo qualche giorno fa ha scritto a noi – tifosi nerazzurri – una meravigliosa lettera. Il legame esistente fra noi e Marco è qualcosa di inestinguibile, di estremamente profondo. Marco – parole sue – ha pianto il 5 maggio, ha pianto nell’euro-derby del 2003, ha pianto quando Giacinto ci ha lasciati. Ma ha pianto con noi di gioia, di amore, di passione, dieci anni fa. E non c’è cosa più bella.

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Era l’Inter di Cambiasso, perno, faro del centrocampo, il nostro Cuchu che nella magica notte di Madrid indossava fiero quella maglia con il numero 3 piangendo a dirotto. Erano lacrime di un uomo vero, con l’Inter nel cuore, che da Madrid era stato scartato e che a Madrid era tornato per prendersi definitivamente la storia dell’Inter, la storia del calcio. Era l’Inter di Stankovic, che nel gennaio 2004 aveva rifiutato la Juventus scegliendo l’Inter, all’epoca a digiuno di vittorie da tanto, troppo tempo. Gli dissero che era matto, ma i matti erano loro. Le fiammate del Drago, come dimenticarle? Senz’altro indispensabili per accendere quel fuoco che l’Inter del 2010 si portava dentro. Era l’Inter di Thiago Motta, classe cristallina, regia formidabile, cervello come pochi. E pensare che qualcuno (fuori dall’Inter) lo ha considerato scarso, lento. Eresie. Bestemmie vere e proprie. Thiago – privato ingiustamente della finale di Champions League causa sceneggiata di un attore maldestro – fu uno degli uomini-svolta per il percorso di quella squadra. Era l’Inter dei gregari Muntari Mariga, il primo crocefisso per un nefasto ingresso in campo a Catania ma da lì in poi impeccabile, del secondo si ricorda soprattutto lo spirito di sacrificio e l’efficacia negli ultimi, palpitanti minuti del Camp Nou. Era l’Inter di Sneijder. Se è vero che in quella stagione tutti regalarono le migliori performance della carriera, lui ne è uno degli esempi più lampanti. Trattato come un peso dal Real Madrid – pure lui – si prese letteralmente l’Inter nel giro di un giorno, ovvero il tempo intercorso fra il suo arrivo a Milano e il derby vinto 4-0 e giocato da titolare. Le punizioni magiche, la geniale fantasia, gli assist a Eto’o a Londra, a Milito a Madrid. Ma tanto, tanto altro. Wesley è stato la scossa per eccellenza, quella che ha consentito all’Inter di non pensare più entro i limiti domestici, ma aprirsi con fiducia e consapevolezza all’Europa e ai suoi palcoscenici. E calpestarli da vincitori.

Era l’Inter di Eto’o. Raramente si è visto un giocatore che incarni in maniera così limpida la mentalità vincente. Disposto a tutto pur di trionfare. Perché gli altri, se pensano a Eto’o, pensano ad uno straordinario goleador. Ma l’Eto’o a cui noi siamo più affezionati, il nostro Eto’o, è quello in versione terzino, quello di una storica notte di Barcellona in cui, anche lui, si prese le sue rivincite e ci portò a coronare il sogno. Lui che fu inserito nello scambio con Ibrahimovic insieme a tanti soldi, quasi a dar per scontato che a Zlatan fosse inferiore. Erano matti, ancora una volta. E il Re Leone rispose sul campo, accettando un ruolo da comprimario (cosa che Ibra, vuoi per caratteristiche tecniche, vuoi per personalità, non avrebbe mai fatto) per far posto alla stagione d’oro di Milito. Ad un’unica condizione: vincere. Quella che per Materazzi era vincolata al suo arrivo tanto da scrivergli un SMS nel luglio 2009: “Se vieni tu, vinciamo tutto”. Mentre Mourinho diceva a Ibra: “Te ne pentirai, vinceremo tutto”. Uno dei due ci credette, l’altro no. Dettagli. Così va il calcio, così va la vita. Era l’Inter dei due ragazzini Balotelli ed Arnautovic, che con la loro esuberante leggerezza giovanile contribuirono a stemperare le tensioni di una stagione gloriosa ma estenuante. Il secondo si fece rubare la macchina prestata dallo stesso Eto’o, il primo mandò quasi al manicomio Mourinho (che poi ammise, “con loro in fondo mi divertivo…”) per due anni e fece arrabbiare tanto i tifosi nerazzurri. Ma servirono anche i suoi gol. Era l’Inter di Pandev, arrivato a gennaio dopo sei mesi in cui Lotito lo trattò da appestato, facendolo allenare da solo. “Eh ma non gioca da sei mesi, non sarà in forma..”. Erano matti. Goran rese possibile il passaggio al 4-2-3-1 – modulo con cui l’Inter si prese la Champions – in una notte di Londra. Ed anche lui, ex prima punta, a sacrificarsi in fascia, con Eto’o dall’altro lato. Spettacolo puro. Qualcosa che solo i grandi uomini possono rendere possibile. Era l’Inter di Milito, l’uomo del destino, l’uomo che ha realizzato i nostri sogni e ci ha fatto piangere come bambini. Tre generazioni di Interisti in lacrime grazie alle sue gesta: i più anziani realizzavano con gli occhi lucidi il sogno di rivivere a colori le emozioni vissute da ragazzini in bianco e nero; gli adulti avevano la fortuna di vivere la pagina più bella nel pieno della loro passione; i ragazzini (come chi vi scrive) potevano sentirsi fieri di aver scelto l’Inter, nonostante ci fosse qualcuno a darmi del matto. Ma i matti erano loro. 30 gol per il Principe, ma soprattutto Roma, Siena, Madrid. Perché tifare Inter è l’emozione più bella, è un privilegio, ed urlare quando vedi il pallone gonfiare la rete è sempre stupendo. Ma le urla storiche, quelle più commosse e sentite ce le ha regalate lui in quella notte di dieci anni fa.

Era l’Inter di Javier Zanetti. Il nostro Capitano. Lasciato deliberatamente per ultimo, perché si tratta di un capitolo a parte. Perché è arrivato nel 1995 e chi scrive è nato un anno dopo: è sempre stato il punto di riferimento del sottoscritto. Per 19 lunghissimi anni, nei quali insieme ne abbiamo vissute di tutte e di più. Perché lui nell’Inter ha sempre creduto, ha deciso di non abbandonare una nave spesso incline ad affondare nella maniera più violenta e trasversale, ma che resta la più bella del mondo. Il nostro Pupi, con quel sorriso, quella fiducia nel fatto che prima o poi – dopo tante delusioni – il trionfo sarebbe arrivato. E che trionfo, Javier. Nessuno in Italia, dopo dieci anni, è riuscito ad eguagliarci. È sempre stato magnifico per tutti noi vederti alzare ogni trofeo, perché era come rivedere noi stessi, perché in te ci specchiavamo con tutte le emozioni e le sensazioni che ci hanno sempre accompagnato. Perché sei Interista come noi. Ma vederti alzare quella con le grandi orecchie, Javier, è stato il ritratto della felicità, la sua sublimazione. Ce l’abbiamo fatta, Capitano.

Era l’Inter di José Mourinho. Una simbiosi così forte fra allenatore, tifoseria ed ambiente non ha precedenti nella storia del calcio, e probabilmente una tale magia non si ripeterà mai più. Con lui ci siamo identificati, con lui siamo andati in guerra, con lui abbiamo sfidato tutto e tutti. Con lui ci sentivamo invincibili. Ed è giusto dirlo, con noi si sentiva invincibile anche lui. Sembra assurdo pensare che la nostra storia sia durata solo due anni, considerando quel turbinio di emozioni e di stati d’animo che ci hanno accompagnati e che ci accompagneranno sempre. Insieme verso la gloria. Niente e nessuno potrà mai cancellare il nostro legame. Nei suoi primi giorni di Inter, quando qualcuno lo paragonò ad Helenio Herrera, disse “io non sono nessuno per essere messo a paragone con lui, lui ha fatto la storia di questo club”. Oggi, Herrera e Mourinho sono i due allenatori più importanti della nostra storia. Le manette, la prostituzione intellettuale, il rumore dei nemici, il sogno che non è un’ossessione, perché il sogno è un sentimento più puro. Poesia applicata al calcio, poesia applicata all’Inter. Per sempre grazie, José.

Era l’Inter di Massimo Moratti. Nessuno lo meritava più di lui. Il nome del club sarà per sempre legato a quello della sua famiglia. Gli enormi investimenti, la passione viscerale, il tifo sfegatato. C’è una frase di qualche giorno fa che riassume l’amore di Massimo Moratti per l’Inter: “Quando le cose non andavano bene, arrivavo persino a prendermela con il presidente. Poi però mi ricordavo che il presidente ero io…”. Nulla da aggiungere. Tifo allo stato puro. L’esultanza spontanea di Barcellona salvo poi scusarsi immediatamente con Laporta, presidente avversario, ritornando subito alla signorilità che lo ha sempre contraddistinto. Cosa c’è di più bello? Una sola cosa: vederlo con la Champions League in mano. Il sogno di una seconda Grande Inter, dopo la prima di papà Angelo, finalmente coronato. Ora sei leggenda, Presidente.

Ed era idealmente l’Inter di Peppino Prisco Giacinto Facchetti. Ma quanto sarebbero stati felici di vedere la loro Inter in cima all’Europa, in cima al Mondo? Due personalità diverse ma così simili: una vita nerazzurra, una purezza d’animo inconfondibile. Due emblemi dell’Interismo, che hanno contribuito a definirne i contorni, le sfumature. Ne hanno incarnato la fede. Non possiamo fare altro che dedicare a loro ogni trionfo, passato e futuro, della nostra Inter. Perché sono stati loro ad indicarci la strada, e nel loro nome noi possiamo dire di avere il privilegio di tifare per questa meravigliosa squadra. Che dieci anni fa esatti celebrava la sua notte più gloriosa, diventando leggenda. Che vive e vivrà per sempre in tutti noi.

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