Scrivo per te specchio, per la tua pazzia semplice abbandonata all’angolo di un locale tra eco di voci e odore di bagno non scaricato, per le stazioni affollate di sabato e per quelle devastate di silenzio nelle notti interrotte da treni merci, scrivo per il passaggio di una vecchiaia davanti ai balconi della somiglianza con il “non succederà mai” e per le uova rotte in testa a chi non ha creduto, per le cicatrici sotto gli occhi azzurri e sotto quelli rossi di sangue estratto come succo di noia da pomeriggi di stanze schiaffeggiate da deodoranti rovesciati su scrivanie, scrivo per braccia tese nei piani bassi con affitto in nero senza rate sicure, per i castelli in fiamme dei bambini uccisi di sogni in benzina.
Questo romanzo, romanzo di cose nascoste e di sputi, vergognoso e bestemmiante dopo il vino, scritto senza carta, immaginato tra litri di macchine accantonate una sopra l’altra nell’angolo del fuoco divampante, questo romanzo scritto tra ossa sporgenti e capelli sudati, tra bicchieri quasi grigi di tempo sul tavolo, quasi rossi per il solito inchiostro nocivo al fegato, ma questo albero di cartone annegato cosa ne sa delle mille vite di un dito a battere parole e questo tramonto medico in triplice laurea cosa vorrà mai preannunciare morte se il mio dolore è un petalo disintegrato e questi oggetti queste canzoni mai ascoltate questi prolungamenti della nostra storia scritta dai parenti mai avuti e dagli amanti persi cos’altro sono?
Questo romanzo, romanzo che muore, vedi le sensazionali notizie del giorno ti illuminano come da brava stazione di fine primavera con il sudore degli ombrelloni scolpiti su carne
Dimostrare innocenza signor giudice, questo non mi è concesso, sono cresciuto tra voli spezzati di deltaplani e palle di Natale prese a pugni, mi sono addormentato in coperte riscaldate da termosifoni magri e ho sognato cose senza pietà sul mio senso di appartenenza alla pazzia degli errori ripetuti, le mattine, signor giudice, non hanno avvocati, sono colpevoli medagliate in oro che blaterano raggi e godono di suspance strofinano angoli di case mai costruite, si annaffiano d’ansia rincorrendosi sui calendari verdi della speranza nazionalistica, dimostrare innocenza, che ridere, ah no mi spiace per la vostra curiosità sofferente ma non ci sto, non sono dalla parte delle persiane chiuse per convenienza e i funerali delle montagne estive li guardo da un terrazzo insabbiato di droga nuvolosa, odioso sniffare dei sogni persi.
nnocente per nulla, colpevolizzo la mia resa dei conti, ho ascoltato sconfitte claudicanti dalle labbra morbide di anni spesi in supermercati a chiedere aumenti e spiegazioni sul giorno prima, ho riassunto lacrime in parole per poi far credere i sorrisi soluzione alle notti da dimenticare, ho aperto sportelli per chiudermi dentro metri di osterie nere di un metro quadrato, chiamale anche insonnie, dove il fumo si arrampicava gorilla scheletrico dalla coda infuocata lungo pareti cercando spazi per respirare ed era un soffocare d’ospedale, applauso sulla bocca, fischi alla tua opera migliore e mai che mi sia venuto in mente di non buttare nulla al vuoto.
“Vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote”
F.Guccini – Canzone della bambina portoghese
Nessuna verità in questo prezzemolo bruciato di terra, dove a dormire neanche dopo la droga di un palmo di mano ad accarezzare tempie, non prende sonno nulla, nel letto immensamente rovinoso questa terra masticata da cani bipedi che raccolgono tagliandi per controllare la posta del non gioco, nessuna felicitazione stampata sul braccio angelico esteso a caloroso saluto, niente che sia tranquillità e lampi sgorgano, commozioni improvvise a fare giallo terrore, questa parete a pois disimpegnato che è la terra.
Niente, vuoto, zero, nada grandi impressioni e promesse politiche, nulla da perseguire, facce senza sogni, per cortesia, limiti disintegrati e morali inservibili.
E l'impressione che non sarà mai così.
Generazione di rose affumicate in un incendio sobrio nel suo limitare i danni ad una sopravvivenza, burocrazia e cambiali, assenze giustificate, maschere accumulatesi sullo strato cutaneo del viso fino a divenire pelle a loro volta, ricerca di stile, assenza di stile come unico stile, stanze profumate, stanze di grida catalogate, sessi di corrispondenza e culi riscaldati da un alone post-crepuscolare a fare tradizione culturale, cultura da perfezionisti delle idee, cultura ad imbrattare aule universitarie in pennellate di inchiostro simpatico a svanire al primo sputo in faccia ricevuto, mani sporche di promesse ad addolcire il freddo di mani protese ad uno stipendio mensile sufficiente per pagare danni e virtù presuntuosamente tali.
L'impressione che il vuoto non sarà mai abbastanza per scaraventare con un calcio in culo tutto questo.
Non è il colore che fa il mare. Puoi organizzare spedizioni cobalto dai tuoi occhi per illuderli di uno splendore in morbidezza arcobalenica, puoi affrontare i movimenti d’onda con un battito verde calma e puoi frammentare in schizzi d’azzurro-rosa nascita i perimetri incoscienti del bianco schiuma. Ma il mare ha i colori dei tuoi occhi.
Stai lì e graffi con unghie appena sopra la pelle, graffi sabbia in un rumore di formiche operaie nell’intento di un castello zuccherato tra saliva e colla artificiale, graffi senza rabbia e senza dolore, è una carezza timida che non si lascia intenerire e apprezza il cinismo ironico di nuvole mattutine in formato astrale.
Al mare non parli. Lui ascolta senza dare soluzioni di causa e luogo, piega il viso ridacchiando a mani giunte in falsa preghiera dietro la schiena, a nulla serve la commozione per l’incendio solare che dichiara alba, incendio senza fuoco in un bagliore mai meccanico.
Toccare l’acqua è cosa per dita silenziose che sorridendo si lasciano sprofondare nel ghiaccio.
Sai, credo di essere diventato alcolizzato.
E mi viene da ridere, mi viene da sbattere mani su porte, mi viene da.
Il mare sorride con me costruendo bicchieri azzurri.
Credo che il limite non mi appartenga.
Credo di essere essenzialmente in un lago di guai.
E nuoto remando di bottiglia.
E il mare. Il mare è un errabondo dai capelli pettinati, un padre di terre invisibili e gloriose nella loro invisibilità, il mare è un pazzo che ha fottuto un manicomio di storie già scritte e corre corre corre corre, corre corre, corre su questi capelli ricci abbandonati al vento come figli maledetti, corre nelle disponibilità di piume di gabbiani sepolti in onde troppo forti, dimmi che non è soltanto una corsa all’alba questo movimento di labbra e voce.
Del mare apprezzo la discontinuità, i vortici improvvisi, le lamentele senza lacrime, il senso di speranza che infonde quel colore astratto, la lucidità del vento e il rumore delle unghie sulla sabbia. Del mare conosco vizi e debolezze, del mare so verità nascoste a chi rende matematico il proprio orizzonte corneale.
La cornea, fissato con la cornea e con lo sguardo. Io pago l’indifferenza dei miei occhi, barboni zoppicanti che arrampicano idee su non idee, calzoni larghi per comodità e petto tronfio di esistenza presa a spallate e gomiti rossi, senza soffrire, soltanto per il gusto di una notte di lividi e bicchieri rotti.
Questo mare dalle antenne morbide, in ricezione ironica dei messaggi gravitazionali del mondo, questo mare con mani da coltivatore di pomodori, grezzo e poetico, tu dove lo raggiungi?
Tu dove lo senti?
Hai capelli da ribelle bocca sensuale, mani da accarezzatrice di sogni e gambe da ballerina. Dove lo senti?
Spero che quest’alba non sia mai tramonto.
- Il romanzo è vergognoso
Questo romanzo, romanzo di cose nascoste e di sputi, vergognoso e bestemmiante dopo il vino, scritto senza carta, immaginato tra litri di macchine accantonate una sopra l’altra nell’angolo del fuoco divampante, questo romanzo scritto tra ossa sporgenti e capelli sudati, tra bicchieri quasi grigi di tempo sul tavolo, quasi rossi per il solito inchiostro nocivo al fegato, ma questo albero di cartone annegato cosa ne sa delle mille vite di un dito a battere parole e questo tramonto medico in triplice laurea cosa vorrà mai preannunciare morte se il mio dolore è un petalo disintegrato e questi oggetti queste canzoni mai ascoltate questi prolungamenti della nostra storia scritta dai parenti mai avuti e dagli amanti persi cos’altro sono?
Questo romanzo, romanzo che muore, vedi le sensazionali notizie del giorno ti illuminano come da brava stazione di fine primavera con il sudore degli ombrelloni scolpiti su carne
- Ci sono prove sufficienti per
Dimostrare innocenza signor giudice, questo non mi è concesso, sono cresciuto tra voli spezzati di deltaplani e palle di Natale prese a pugni, mi sono addormentato in coperte riscaldate da termosifoni magri e ho sognato cose senza pietà sul mio senso di appartenenza alla pazzia degli errori ripetuti, le mattine, signor giudice, non hanno avvocati, sono colpevoli medagliate in oro che blaterano raggi e godono di suspance strofinano angoli di case mai costruite, si annaffiano d’ansia rincorrendosi sui calendari verdi della speranza nazionalistica, dimostrare innocenza, che ridere, ah no mi spiace per la vostra curiosità sofferente ma non ci sto, non sono dalla parte delle persiane chiuse per convenienza e i funerali delle montagne estive li guardo da un terrazzo insabbiato di droga nuvolosa, odioso sniffare dei sogni persi.
nnocente per nulla, colpevolizzo la mia resa dei conti, ho ascoltato sconfitte claudicanti dalle labbra morbide di anni spesi in supermercati a chiedere aumenti e spiegazioni sul giorno prima, ho riassunto lacrime in parole per poi far credere i sorrisi soluzione alle notti da dimenticare, ho aperto sportelli per chiudermi dentro metri di osterie nere di un metro quadrato, chiamale anche insonnie, dove il fumo si arrampicava gorilla scheletrico dalla coda infuocata lungo pareti cercando spazi per respirare ed era un soffocare d’ospedale, applauso sulla bocca, fischi alla tua opera migliore e mai che mi sia venuto in mente di non buttare nulla al vuoto.
- Questa parete a pois disimpegnato che è la terra
“Vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote”
F.Guccini – Canzone della bambina portoghese
Nessuna verità in questo prezzemolo bruciato di terra, dove a dormire neanche dopo la droga di un palmo di mano ad accarezzare tempie, non prende sonno nulla, nel letto immensamente rovinoso questa terra masticata da cani bipedi che raccolgono tagliandi per controllare la posta del non gioco, nessuna felicitazione stampata sul braccio angelico esteso a caloroso saluto, niente che sia tranquillità e lampi sgorgano, commozioni improvvise a fare giallo terrore, questa parete a pois disimpegnato che è la terra.
- Primi accenni di zero
Niente, vuoto, zero, nada grandi impressioni e promesse politiche, nulla da perseguire, facce senza sogni, per cortesia, limiti disintegrati e morali inservibili.
E l'impressione che non sarà mai così.
Generazione di rose affumicate in un incendio sobrio nel suo limitare i danni ad una sopravvivenza, burocrazia e cambiali, assenze giustificate, maschere accumulatesi sullo strato cutaneo del viso fino a divenire pelle a loro volta, ricerca di stile, assenza di stile come unico stile, stanze profumate, stanze di grida catalogate, sessi di corrispondenza e culi riscaldati da un alone post-crepuscolare a fare tradizione culturale, cultura da perfezionisti delle idee, cultura ad imbrattare aule universitarie in pennellate di inchiostro simpatico a svanire al primo sputo in faccia ricevuto, mani sporche di promesse ad addolcire il freddo di mani protese ad uno stipendio mensile sufficiente per pagare danni e virtù presuntuosamente tali.
L'impressione che il vuoto non sarà mai abbastanza per scaraventare con un calcio in culo tutto questo.
- Fegato e qualcos’altro a mare
Non è il colore che fa il mare. Puoi organizzare spedizioni cobalto dai tuoi occhi per illuderli di uno splendore in morbidezza arcobalenica, puoi affrontare i movimenti d’onda con un battito verde calma e puoi frammentare in schizzi d’azzurro-rosa nascita i perimetri incoscienti del bianco schiuma. Ma il mare ha i colori dei tuoi occhi.
Stai lì e graffi con unghie appena sopra la pelle, graffi sabbia in un rumore di formiche operaie nell’intento di un castello zuccherato tra saliva e colla artificiale, graffi senza rabbia e senza dolore, è una carezza timida che non si lascia intenerire e apprezza il cinismo ironico di nuvole mattutine in formato astrale.
Al mare non parli. Lui ascolta senza dare soluzioni di causa e luogo, piega il viso ridacchiando a mani giunte in falsa preghiera dietro la schiena, a nulla serve la commozione per l’incendio solare che dichiara alba, incendio senza fuoco in un bagliore mai meccanico.
Toccare l’acqua è cosa per dita silenziose che sorridendo si lasciano sprofondare nel ghiaccio.
Sai, credo di essere diventato alcolizzato.
E mi viene da ridere, mi viene da sbattere mani su porte, mi viene da.
Il mare sorride con me costruendo bicchieri azzurri.
Credo che il limite non mi appartenga.
Credo di essere essenzialmente in un lago di guai.
E nuoto remando di bottiglia.
E il mare. Il mare è un errabondo dai capelli pettinati, un padre di terre invisibili e gloriose nella loro invisibilità, il mare è un pazzo che ha fottuto un manicomio di storie già scritte e corre corre corre corre, corre corre, corre su questi capelli ricci abbandonati al vento come figli maledetti, corre nelle disponibilità di piume di gabbiani sepolti in onde troppo forti, dimmi che non è soltanto una corsa all’alba questo movimento di labbra e voce.
Del mare apprezzo la discontinuità, i vortici improvvisi, le lamentele senza lacrime, il senso di speranza che infonde quel colore astratto, la lucidità del vento e il rumore delle unghie sulla sabbia. Del mare conosco vizi e debolezze, del mare so verità nascoste a chi rende matematico il proprio orizzonte corneale.
La cornea, fissato con la cornea e con lo sguardo. Io pago l’indifferenza dei miei occhi, barboni zoppicanti che arrampicano idee su non idee, calzoni larghi per comodità e petto tronfio di esistenza presa a spallate e gomiti rossi, senza soffrire, soltanto per il gusto di una notte di lividi e bicchieri rotti.
Questo mare dalle antenne morbide, in ricezione ironica dei messaggi gravitazionali del mondo, questo mare con mani da coltivatore di pomodori, grezzo e poetico, tu dove lo raggiungi?
Tu dove lo senti?
Hai capelli da ribelle bocca sensuale, mani da accarezzatrice di sogni e gambe da ballerina. Dove lo senti?
Spero che quest’alba non sia mai tramonto.